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17/03/2012 07:57:04

Pronti anche alla croce, per la nostra fede

La “croce” era un crudele supplizio che dopo strazianti tormenti e una lenta, dolorosissima agonia conduceva alla morte. La crocifissione era una pena infamante non contemplata dal diritto penale giudaico come giudizio capitale. I quattro tipi di condanna a morte previsti dal diritto ebraico erano la lapidazione, il rogo, la decapitazione e lo strangolamento. Dai romani fu considerata il mezzo più efficace per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, e adottata come deterrente per sottomettere gli schiavi e ogni individuo pericoloso alla sicurezza del loro potere. Durante l’occupazione romana in Palestina, sono stati condannati alla morte di croce così tanti ebrei, che interi boschi furono distrutti per ottenere i pali adatti. Da Giuseppe Flavio sappiamo che i condannati “venivano flagellati, e dopo aver subito ogni sorta di supplizi prima di morire, erano crocifissi di fronte alle mura [di Gerusalemme]... cinquecento al giorno!” (Guerre Giudaiche XI, 1). Le sofferenze fisiche e morali dei crocifissi, destinati a morire dopo questa straziante tortura, sono inimmaginabili. La morte sopravveniva dopo tre o perfino sette giorni, per sfinimento o per asfissia. Il cadavere veniva lasciato putrefare sulla croce rimanendo in balìa degli uccelli rapaci e dei divoratori di carogne. All’epoca di Gesù questa morte era considerata dai giudei come la più ripugnante, ed è proprio all’orrore per questa condanna, che veniva inflitta esclusivamente ai rifiuti della società, ai “maledetti da Dio” – come definisce il libro del Deuteronomio gli “appesi al legno” (Dt 21,22-23; Gal 3,13;) – che Gesù si riferisce con il suo invito a “prendere su di sé la croce” (cfr. Mt 10,38; 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23; 14,27). L’invito a sottomettersi volontariamente al supplizio della “croce” è strettamente legato alla sequela di Gesù, sempre proposta e mai imposta. “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” [Mt 10.38] Questo invito segue un chiarimento fatto da Gesù riguardo alla “pace” che egli è venuto a proclamare: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10,34-36). Nel programma per la realizzazione del regno di Dio un ruolo importante lo hanno i costruttori di pace: “Beati quelli che lavorano per la pace perché questi Dio li riconoscerà figli suoi” (Mt 5,9). Il disegno di Dio sull’umanità è che questa raggiunga e viva in una condizione di piena pace (cfr. Lc 2,14). L’ebraico “shalòm”, tradotto con “pace”, significa la condizione di pienezza di vita alla quale l’uomo aspira ed è chiamato, e quindi comprende la felicità, la libertà, la dignità della persona. Quanti accettano Gesù e il suo messaggio sono chiamati ad impegnarsi perché ogni uomo abbia la possibilità di raggiungere una condizione di vita degna di tale nome. Questo impegno li condurrà inevitabilmente non solo a denunciare con la parola tutte le situazioni di ingiustizia che impediscono la pace, ma – con il proprio comportamento – ad essere una denuncia per la società, rifiutando ogni forma di potere e di ricchezza che sono la base dell’ingiustizia tra gli uomini (cfr. Mt 5,3), attirandosi così l’ostilità di quanti si vedono smascherati da questo comportamento. La rinuncia all’ambizione sovverte la scala di valori di una società basata sull’oppressione dell’uomo, sistema che non tollera qualsiasi forma di dissenso o contestazione che possa in qualche modo minare il suo potere, e che scatena la persecuzione contro chiunque ritiene pericoloso per la solidità del proprio prestigio. Non esistono persone più pericolose per il sistema di coloro che si impegnano perché l’uomo sia felice. Il lavoro per la pace viene visto dal “mondo” come una sfida ai princìpi sui quali si regge il sistema e considerato un crimine talmente grave da annullare persino i più stretti legami di sangue ed essere meritevole di morte (cfr. Mc 13,12-13). Per questo Gesù avverte i suoi che chiunque farà della propria esistenza un dono d’amore, perché altri ricevano vita, incontrerà in questo suo cammino, come inevitabile conseguenza, la croce. Il loro destino non sarà all’insegna del successo ma – come quello del messia – del rifiuto e della morte. Nonostante Gesù avesse messo in guardia i suoi dal “lievito dei farisei” – l’uso della fede per il privilegio e prestigio personale – nel gruppo dei discepoli rimane radicata la tradizionale idea giudaica di un messia vittorioso che avrebbe associato i suoi seguaci alla sua gloria. I discepoli, pertanto, dovranno abbandonare definitivamente ogni idea di trionfo ed accettare quella di un amore che giunge fino a far dono della propria vita (cfr. Gv 15,13). L’infamia della croce è il prezzo da pagare per la creazione di una società alternativa, i cui valori sono diametralmente opposti a quelli della società ingiusta. L’adesione a Gesù non è la condizione per ottenere la “salvezza eterna” o – per usare un altro linguaggio – per entrare in paradiso, ma per costruire il “regno di Dio”, la nuova società dove si permette a Dio di governare, di prendersi cura dei suoi figli. La croce, quindi, non viene mai data da Dio ma presa dall’uomo, come conseguenza di una libera scelta fatta dall’individuo che, accolto Gesù e il suo messaggio, ne accetta anche le estreme conseguenze di un marchio infamante. Per questo la croce non è per tutti: “Se qualcuno...”, “Se vuoi...” è la formula della proposta di Gesù che è sempre diretta ai suoi discepoli e alla loro libera volontà. Un invito – chiarissimo nelle sue conseguenze – e non un’imposizione che grava su tutti. Gesù non costringe alla sua sequela dei rassegnati, ma invita persone libere che volontariamente ed entusiasticamente lo seguano. La croce era il supplizio per i disprezzati, per i rifiuti della società, e Gesù, che non offre titoli, privilegi, posti onorifici, avverte coloro che intendono seguirlo che – se non arrivano ad accettare che la società, civile e religiosa, li consideri delinquenti e bestemmiatori, che il sistema su cui si regge il mondo li dichiari gente indesiderabile – non lo seguano! Potremmo sintetizzare queste esigenze di Gesù con “o così...o non mi servite”. Per questo motivo le parole più severe dei vangeli non sono rivolte ai peccatori, verso i quali Gesù ha espressioni di materna tenerezza, ma sempre verso i suoi. All’ invito a caricarsi della croce, comune a Matteo e Marco, Luca aggiunge l’espressione “ogni giorno” (Lc 9,23), sottolineando come questo sia un atto che va ripetuto quotidianamente, rinunciando a quei valori coi quali continuamente la società tenta: il conseguimento della propria felicità attraverso il denaro, il prestigio, e il potere. La missione di Gesù, voler “onorare il Padre”, – facendo conoscere con la propria esistenza chi realmente è questo Dio-Amore – ha portato come inevitabile conseguenza l’essere disonorato proprio dalle autorità religiose di Israele: “io onoro mio Padre, e voi mi disonorate” (Gv 8,49). Quanti desiderano il successo e la gloria non possono essere discepoli di un messia sconfitto e disonorato. Prendere la croce, dunque, non è subire rassegnati quanto di brutto accade nella vita, ma accettare volontariamente e liberamente, come conseguenza della propria adesione a Gesù, la distruzione della propria reputazione, e di se stessi: “Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25) “Sarete odiati da tutti per causa del mio nome!” (Lc 21,17). Naturalmente perdere la reputazione non equivale a perdere la dignità. Proprio per conservare la propria dignità occorre perdere la reputazione! La croce diviene quindi un passaggio inevitabile ed indispensabile per ogni credente che voglia seguire Gesù nel cammino della verità verso la libertà (cfr. Gv 8,32). Ma non basta rinunciare alla propria reputazione, bisogna perdere la paura della morte. Fintantoché esiste questa paura, il credente non è libero di fronte a quanti lo possono minacciare. Ecco perché Gesù invita a non considerare neanche la vita fisica come un valore supremo, non con una fanatica chiamata al martirio, ma trasmettendo la certezza che la vita che lui comunica all’uomo è di una qualità tale da superare persino la morte (cfr. Gv 8,52). Per questo il legno della croce, da sterile strumento di distruzione dell’uomo si trasforma nel vivificante “albero della Vita”, che trasmette all’uomo linfa vitale per oltrepassare la morte. La croce è il nuovo albero carico della Vita che è il cristo, il quale in modo assoluto e immediato afferma la sua identità: «Io sono la vita» (Gv 14,6; 6,53). Pertanto la professione di fede in Gesù è professione di fede nella vita. E il tema della vita è proprio dell’evangelo di Giovanni, nel quale, non a caso, il racconto della passione di Gesù è racchiuso tra due giardini, luoghi di vita (Cfr. Gv 18,1 e 19,41). In quest’evangelo non appare mai l’invito di Gesù a caricarsi della croce come condizione per seguirlo, ma l’evangelista formula in maniera altrettanto incisiva la radicalità della sequela di Gesù: “Molti discepoli dissero: questo messaggio è duro; chi lo può ascoltare?” (6,60) “Disse allora Gesù ai dodici: volete andarvene anche voi? (6,67) Nel discorso di Cafarnao, Gesù ha trattato precisamente delle condizioni per appartenere alla comunità messianica: Gesù e i suoi sono una comunità dedicata senza riserve al bene dell’uomo, per cui l’adesione a lui si deve manifestare nel dono di sé agli altri fino all’estremo sacrificio della propria vita. Molti discepoli – che lo seguivano spinti dall’ambizione e dal desiderio di potere e di prestigio sperando di condividere con lui il trionfo del messia – rimangono delusi. Ma Gesù non accetta compromessi: è disposto a restare senza discepoli piuttosto che rinunciare al suo programma di donazione totale della vita perché altri ricevano vita. Stesse disposizioni che verranno poi nuovamente formulate in 12,24: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo. Se muore produce molto frutto”. Non è possibile trasmettere vita senza dare la propria. Per questo Gesù non chiede tanto di trasmettere un messaggio ma di dimostrare amore, perché la vita – frutto dell’amore – non si comunica se l’amore non arriva al dono totale. Naturalmente questa morte di cui parla Gesù non è un fatto isolato, e neanche puramente fisico (ci sono “morti” molto più dolorose di quella fisica!) ma il culmine di un processo di donazione di se stessi, l’ultimo atto di una donazione costante. La croce assunta nella dimensione della sequela attiene, dunque, al dolore che nasce entro un cammino compiuto in risposta a una chiamata. Esso sorge allorché si rinnega se stessi al fine di adempiere al compito cui si è chiamati. La croce dice la pasqua (vale a dire il passaggio) che ci è chiesto di compiere. La croce è il sigillo di una vita presa nella morsa implacabile della fede. La croce, allora, non è una sorta di spada di Damocle che grava su tutta l’umanità, ma – come per Gesù – la possibilità di rendere visibile l’amore del Padre al mondo e, per Gesù, la capacità di manifestare pienamente se stesso: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che io sono” (Gv 8,28).   Violairis - 15 marzo 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com