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14/06/2012 04:56:30

David Costa e la mafia. Quando gli inquirenti lo definivano "un patto serio e concreto"...

L’accusa è sempre quella: concorso esterno in associazione mafiosa. Pesante, pesantissima. Costa non molla: “sono sereno, ho fiducia nella giustizia”.
Era il pupillo di Pier Ferdinando Casini, Costa. Sul trampolino, lanciato verso Roma, passando per Cuffaro. Poi Polizia e Guardia di Finanza lo arrestano la mattina del 15 novembre 2005. L’inchiesta si chiama “Progetto Peronospera”, è quella che scoperchia gli intrecci mafia-politica a Marsala. L’esponente dell’Udc ovviamente ha sempre respinto ogni accusa.
Casini e Costa a Roma facevano tante di quelle passeggiate. Parlavano parecchio. Al padre, nel corso di una telefonata intercettata del marzo 2005, l’ex Udc racconta di una conversazione avuta con Casini in cui il leader del partito lo prendeva a braccetto e lo rassicurava sul suo futuro politico. Poi gli dice “hai fatto bene a dimetterti”. Perché Costa si era dimesso da assessore dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia.
L’indagine a suo carico e di altri esponenti politici partiva dal lavoro della squadra mobile di Trapani, allora coordinata da Giuseppe Linares, che smascherava le attività della famiglia mafiosa di Marsala. Il capo era Natale Bonafede, arrestato il 31 dicembre 2003 dopo tre anni di latitanza assieme al capo mandamento di Mazara del Vallo, Andre Mangiaracina, vicino a Matteo Messina Denaro.
Gli inquirenti nell’ordinanza di custodia cautelare allora scrissero che Costa avrebbe “stipulato un patto serio e concreto, con esponenti di rilievo della famiglia mafiosa di Marsala” per motivi elettorali “raggiunti tramite appartenenti al sodalizio criminale di quella famiglia”. Tra questi, oltre a Bonafede, ci sarebbero stati Davide Mannirà, imprenditore vitivinicolo, Rocco Curatolo, Antonino Bonafede e Francesco Raia. Secondo l’accusa, Costa avrebbe personalmente aiutato Mannirà intervenendo presso la direzione dl Banco di Sicilia per una controversia legata ad un rilevante debito da parte della cooperativa agricola Agrituris, in cui i genitori di Mannirà risultavano essere fideiussori, e di un’altra cospicua somma di sofferenza bancaria presso lo stesso istituto a loro nome e quello dei suoi due zii. Per gli inquirenti Costa “si sarebbe prestato a far rientrare la stessa fallita cooperativa agricola Agrituris a beneficiare della legge regionale 37/94” consentendo a Mannirà di ottenere un guadagno netto di circa 700 milioni di vecchie lire. L’ex assessore ha sempre negato ogni fatto. Sempre in maniera tranquilla, sicuro. Ma i fatti che gli vennero contestati non si fermarono alla presunta ingerenza nei confronti della dirigenza della banca.
C’è la politica, e quell’ombra del voto di scambio politico mafioso. A Costa viene contestato di aver chiesto l’aiuto della mafia per la sua carriera politica.
I fatti risalgono alle elezioni regionali del 2001. Ci sono due uomini della famiglia di Marsala che parlano, vengono intercettati e non lo sanno. Parlano di politica. Di David Costa e di Francesco Pizzo, il figlio di Pietro, l’ex senatore socialista. Di quanto devono farsi dare per appoggiare i due alle regionali. Si chiamano Vincenzo Giglio e Vito Vincenzo Rallo. E il prezzo per il pacchetto di mille voti è 100 mila euro. Natale Bonafede non sembrava convinto della doppia iniziativa, preferiva, da quello che emerge dalle intercettazioni, sostenere soltanto Costa. Secondo lui aveva più chance e avrebbe potuto essere più utile alla causa. Rallo: “ma vedi che Pietro Pizzo non ce la fa …oh!”. Giglio: “ma che cazzo te ne fotte … quello vuole “uscire” 50 milioni … 100 milioni …”. “… Pietro Pizzo?” . “ …unca!”. “ … uh!”. “… e questo Davide Costa ne vuole uscire altri cento … e lui ha il “teorema” il “Comune” in mano …”.
Il “teorema” ce l’aveva Bonafede che, da quello che emerse dalle indagini, sarebbe stato propenso a sostenere Costa non dietro pagamento della mazzetta ma in maniera forfettaria, con i classici favori.

A parlare in quest’inchiesta non ci sono solo gli intercettati. Ci sono anche i collaboratori di giustizia, uno di questi è Mariano Concetto, ex vigile urbano e appartenente alla famiglia mafiosa di Marsala. Ai giudici racconta quelle elezioni del 2001. La cosca si spartiva. Secondo il racconto di Concetto ad occuparsi di Costa sarebbe stato Mannirà, lui invece si sarebbe occupato di Pizzo. “Bonafede quasi quasi mi fa capire – afferma Concetto - che non se ne doveva fare più niente lui era orientato ad aiutare Davide Costa. Al che gli dico: mi fai prendere prima l’impegno e poi… ma sai (risponde Bonafede), c’è mio cugino Davide Mannirà, è da parecchio tempo che sta dietro a Davide Costa, gli aveva promesso un favore … che tra l’altro io ricordo che lui me ne aveva accennato… si trattava di (…) un mutuo di 300 milioni…”. Dal canto suo l’ex deputato regionale dell’Udc respinge ogni accusa di accordo e mette la mano sul fuoco sulla trasparenza di quei 7645 voti che gli garantirono l’elezione.
Qualche mese dopo, nell’autunno del 2001, ci sarebbero state le elezioni comunali. Costa avrebbe proposto la candidatura a consiglio comunale di Mannirà. Per il sindaco in ballo c’era Pietro Pizzo, che non era visto di buon occhio né da Bonafede né da Costa. Anche Massimo Grillo confermerà la circostanza, con Costa che avrebbe osteggiato una candidatura dell’ex senatore.
Un altro che parla è Vincenzo Laudicina, ex consigliere comunale di Marsala. Non è affiliato, ma sa molte cose. Racconta lo stato di fibrillazione nell’ambiente politico a seguito dell’arresto di Bonafede e della collaborazione di Concetto. Laudicina raccontò anche di un incontro “alla presenza di Natale Bonafede al quale avrebbero partecipato anche Pietro Pizzo, Ferrantelli, Pasquale Surace, Pino Carnese e rappresentanti di Costa e di Grillo”. Non sarebbe stata l’unica volta. Un altro racconto arriva da Giuseppe Galfano, medico marsalese candidato a sindaco alle amministrative del 2001. Galfano racconta ai magistrati del pranzo a casa dello zio. “Si presentarono tutti insieme, Davide Mannirà, David Costa e Natale Bonafede –raccontò Galfano -. Arrivarono tutti insieme con la macchina di servizio della Regione Siciliana. Mi colpì il fatto che si trattava di un’Alfa romeo blu, con un lampeggiante sul tetto. All’epoca, se mal non ricordo, Costa era già assessore”. Poi però sentito al processo l’ex esponente del centrodestra marsalese non riesce a ricordare. Al contrario di Massimo Grillo, che affermò davanti ai giudici che Galfano gli disse di quell’incontro.Dagli atti dell’inchiesta emergeva anche che l’onorevole Costa avrebbe anche aiutato alcune persone imparentate a uomini d’onore a trovare lavoro. La difesa di Costa è stata serrata. “Non ho nulla da temere, ho sempre avuto rispetto nella giustizia”. Non ci sta proprio. E a chi, come fece Marco Travaglio, gli affibbia l’appellativo di “figlioccio dei boss” non gliela fa passare liscia, lo porta in Tribunale e ottiene il risarcimento di 10 mila euro. Ora Costa ricorda le sentenze di primo grado e appello finite con l’assoluzione: “d’altronde sono loro che giudicano sul merito, la Cassazione decide sull’aspetto procedurale”.