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18/07/2019 06:00:00

Andrea Camilleri: la passione per la scrittura, l'impegno civile, il suo Montalbano

 Se davvero bisogna stare attenti al tessuto di coincidenze che Leonardo Sciascia amava chiamare “sincronicità”, non possiamo ignorare che nell’anno del trentennale della scomparsa dell’autore di “A ciascuno il suo” ci lascia Andrea Camilleri, nato a Porta Empedocle il 6 settembre del 1925.

Quando aveva vent’anni, però, l’influenza e gli insegnamenti dello scrittore racalmutese erano ancora lontani. Quello che contava, per il giovane Camilleri, era la poesia. Possiamo solo immaginare l’emozione che l’aveva attraversato, nel 1945, quando del tutto inaspettatamente lesse il suo nome sulla celebre rivista Mercurio, diretta all'epoca da Alba De Cespedes. Era stato pubblicato un suo breve componimento, alcuni versi scritti all’alba del secondo dopoguerra.

Da quel momento la passione per la scrittura non lo abbandonò mai, ma il successo arrivò tardivo, soltanto mezzo secolo dopo, nel 1994, con la pubblicazione di La forma dell’acqua (Sellerio): sulla soglia dei settant’anni Camilleri aveva scritto il primo romanzo della saga del commissario Salvo Montalbano.

Secondo Bruno Pischedda in Dieci nel Novecento (Carocci, 2019), in poco più di dieci anni quel romanzo venderà 353.500 copie, una cifra che diventa assolutamente irrisoria se pensiamo che l’intera produzione di Camilleri oggi ha venduto più di 26 milioni di copie. E questo è il dato italiano, perché sembra quasi superfluo sottolineare che la sua opera è stata tradotta in 120 lingue.

Questa enorme fortuna, accompagnata da un inimmaginabile trasporto di pubblico (che non ha mai percepito come deterrente l’uso del siciliano “maccheronico”), ci pone di fronte a molte domande: com’è possibile che un semplice libro susciti così tanto interesse? In che contesto nasce? Cosa innesca nei lettori quell’irresistibile attrazione?

Provando a rispondere alla rinfusa, cominciamo a dire che nel 94 con La forma dell’acqua Camilleri sente l’esigenza di interrompere una volta per tutte quella nociva e pericolosa equivalenza “Sicilia = Mafia” e lo fa costruendo una storia, ambientata nella Trinacria immaginifica di Vigata, che non ha niente a che fare con la mafia. E’ semplicemente un giallo, alla fine del quale, il commissario riporta l’ordine in città e fa giustizia. Solo un anno prima era impensabile figurarsi la possibilità di raccontare la Sicilia al di fuori della sua realtà mafiosa. E, badiamo bene, se è possibile raccontarla, significa che attorno al cratere di Capaci, attorno a via D’Amelio, si può ricominciare a costruire.

Veniamo, ora, ad un altro aspetto, che è il contesto generale in cui si innesta la produzione di Camilleri. Come sottolinea Massimo Onofri in Fughe e rincorse (In Shibboleth, 2019) questa passione, questo attaccamento al genere del giallo/noir non è un fenomeno esclusivamente italiano, ha radici in tutta Europa: Petros Markaris in Grecia, Henning Mankel in Svezia, Alicia Giménez-Bartlet in Spagna. A cosa è dovuto? Una risposta convincente potrebbe essere la diffusa percezione di disordine, di ingiustizia sociale, di irrazionalità, di insicurezza e mancanza di valori che segna il presente in cui tutti noi viviamo. Quanta fiducia abbiamo nello Stato, nel suo macchinoso corpo burocratico? Poca, pochissima, nessuna. Ecco, i giallisti europei soddisfano questa nostra necessità di ordine, di giustizia sociale, di sicurezza. Ci confortano, ci rassicurano. Amiamo Salvo Montalbano perché, alla fine dei conti, è il nostro paladino della porta accanto, l’uomo delle istituzioni che, un po’ fregandosene di quegli oscuri iter da tribunale, riesce sempre a restituire ciò che è giusto alla sua comunità.

A questo punto le sottili ombre di cui finora non abbiamo parlato, gettano una disorientante opacità sul personaggio di Montalbano. Nel costruire il suo figlio prediletto lo scrittore empedoclino l’ha dotato, infatti, di una serie di rilevanti contraddizioni: da una parte veste i panni dell’uomo delle istituzioni, ma dall’altra è apertamente ostile alla dimensione burocratico-tribunalizia, che aggira e disattende, perché sa che può perseguire il suo senso di giustizia con metodi paralleli. Spesso nei romanzi che lo vedono protagonista si ha l’impressione di leggere che la giustizia, rispetto ai suoi luoghi deputati, si trovi sempre altrove. Perché l’unica cosa che importa è che siano stati rispettati quei principi di ordine e sicurezza, che in ultimo restaurano l’equilibrio smarrito.

Ma è davvero questa l’idea di giustizia che nutriva Andrea Camilleri, il polemista di sinistra e l’intellettuale razionalista, l’unico vero erede della tradizione letteraria sciasciana? O forse col tempo quel Salvo Montalbano è finito per diventare una sua nemesi, il suo vero oppositore?

Il nostro solitario botta e risposta potrebbe continuare a lungo, ci lascia però pensare che è questo innanzitutto lo spirito della letteratura: aprire infiniti questionari con cui quotidianamente confrontarsi. E per questa ragione non smetteremo mai di ringraziare Andrea Camilleri.

MARCO MARINO