È da una profonda intuizione verghiana che prende le mosse questa riflessione per un’immersione nei meandri della società e del vivere umano: «Allorquando uno di quei piccoli, o più deboli, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui». (Fantasticheria)
La metafora dell’albero e delle foglie che cadono, sospinte dall’appassimento e dal vento che li trasporta verso lidi lontani per divenire, a sua volta, alimento nutritivo terreno, non è sempre conveniente e applicabile agli uomini, il cui ricordo e il profumo delle loro azioni durano in eterno. Su questo dovremmo riflettere: l’immortalità che prende le mosse dalla mortalità per espandersi nel tempo e nella memoria che come le onde, a volte impetuose, a volte pacate, spingono verso litorali dell’approdo ultimo, portando con sé messaggi remoti.
Spesso non sono importanti i contenuti dei messaggi stessi ma la pulsione che essi danno a vivere intensamente e a farsi carico di un futuro che, comunque sia, dipenderà da quella “collina” artificiale che si è saputa innalzare perché sia da tutti osservata e diventi punto di riferimento. E l’uomo, ogni uomo, dovrà essere lanterna che sappia far luce ai vicini e ai lontani, nello spazio e nel tempo.
L’orgoglio che l’uomo dovrà portarsi dietro, in vita e post mortem è la consapevolezza che il suo passaggio da questo mondo non sarà stato vano: senza aver lasciato il “profumo” di sé, delle sue opere, della sua sapienza, della sua capacità di coinvolgimento perché altri se ne avvantaggino e trovino sollecitazioni al senso, alla bellezza e alla gioia della vita.
Lo spalmarsi degli uomini, sia fisicamente con le migrazioni (per motivi economici, politici o di guerre con l’emergenza dei profughi) e sia con la trasmissione delle idee, deve essere una necessità, un dovere in un mondo che senta il bisogno non che le foglie marciscano ma che queste idee suscitino innovativi ideali e smuovano a sensibilità nuove: così solo si può raggiungere un afflato umano che diventa preghiera universale, di lode e di ringraziamento a Colui che ha voluto farci dono del nostro ESISTERE perché in noi abiti la vita e questa sia data in abbondanza a tutta la creazione.
Oggi assistiamo a una disgregazione umana, non tanto fisica, anche quella, quanto spirituale, consanguinea, di emozioni: dalla famiglia patriarcale, unita, collaborativa, sussidiaria, a una nucleare e “aperta” ove si è molto accentuato l’individualismo, di coppia o personale. Le “foglie” si disperdono sempre più e perdono, nella loro unitarietà e attaccamento all’albero, brillantezza e bellezza. Il cosmo si va sempre più sgretolando.
Quale grande pena attanaglia gli uomini liberi nel vedere i loro simili stretti dalla morsa dell’ignoranza (a tutti i livelli), di quella superiorità che li pone a sentenziare villanamente sugli altri, dell’immobilismo razionale e pratico: sono esseri che strisciano sulla terra e anche se c’è in loro il tentativo di alzare la testa (intervenendo a volte al di fuori da ogni logica e discorso), sono meschini e incapaci e per questo ripiombano nella dimensione strisciante e deprimente.
La solidarietà e la carità umana devono portare ciascuno a individuare ove la “povertà” è a livelli bassissimi e accompagnare chi necessita a raggiungere la consapevolezza di avere una dignità, non solo perché essere creato, uomo o donna, ma perché creatura di Dio e da Lui condotto a un piano elevato di redenzione.
La religione aiuta a discernere consapevolmente ove si trova la fonte, la linfa da cui le foglie in vita prendono il sostentamento, ma non tralasciamo il rispetto che si deve a ogni creatura che, anche se aggrappata alla natura stessa, trova quella profondità nella sapienza umana per conoscere il bene e individuare i modi per propagarlo.
Tutto questo deve far parte della normalità esistenziale e non limitarci agli eventi che in ogni epoca e territorio emergono quasi per caso. Con la globalizzazione notiamo: da un lato, un coinvolgimento ampio del sistema mondo e come tale dovrebbe essere tutta l’umanità a sentirsi unita perché non c’è settorialità e differenza, ma tutti ne siamo indistintamente coinvolti sia nel campo ecologico, economico, sanitario, sociale, culturale… dall’altro, la disgregazione è sotto gli occhi di tutti, basta entrare in una sala d’attesa per rendersi conto di come ognuno sia isolato.
Ritorniamo a sentirci un “villaggio” in cui il problema di uno è quello degli altri: è un dovere renderci solidali e costretti ad attingere all’unica fonte della felicità. Rinveniamo, dal letame formato dalle stesse foglie e in cui noi stessi ci siamo sotterrati, tutti quei valori e le “perle preziose” in esso contenuti perché dalla decomposizione si torni all’unità collaborativa e all’afflato comune per elevare all’unisono un solo Amen che irrompa nel piano salvifico della creazione e ci faccia tornare a essere abitanti di un nuovo Eden dialogico e di pace.
Salvatore Agueci