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04/10/2023 06:00:00

Schifani, la Sicilia che arranca. E il dress code

 Alla fine lo hanno fatto arrabbiare. Ogni pazienza ha un limite, e ogni limite una pazienza, perdinci, avrebbe detto Totò. E quando li ha visti arrivare con «nu jeans e na maglietta», come se si fosse in una canzone di Nino D’Angelo, non ci ha visto più. Ed è partita la sfuriata.


È un Renato Schifani molto nervoso quello delle ultime settimane. Il compassato intessitore di manovre ha lasciato il passo al furioso governatore, che si agita in un clima molto teso. Perché il tempo scorre, la cera squaglia, la processione però resta ferma. Nessuna riforma approvata, nessun disegno di legge portato a casa. Tutto in alto mare: la riforma delle province? Niente. Quella sui rifiuti? Niente. Il nuovo piano della salute? Dopo che le aziende ospedaliere hanno fatto le gare per i nuovi ospedali, da Roma hanno annunciato che non ci sono più soldi. Intorno, una maggioranza rissosa, che si guarda con sospetto su tutto, e che aspetta l’incidente diplomatico per dare fuoco alle polveri.


E poi c’è la grana dei fondi europei, che la regione non riesce a spendere. E quindi Schifani ha chiamato al tavolo i super burocrati della Regione, per invitare a darsi una mossa. Parola d’ordine: salvare il salvabile. Quando li ha visti arrivare vestiti come dei liceali ricevuti in presidenza, si è arrabbiato. Insomma, ci vuole il dress code adatto per lavorare ai piani alti della Regione, sbotta Schifani. Sembra di rivedere il miglior Silvio Berlusconi, quello delle spillette, il nodo giusto alla cravatta, il manuale del candidato elegante. O, per non andare lontano, il predecessore di Schifani, l’attuale ministro Nello Musumeci, che, «per restituire dignità e decoro alle istituzioni», come dichiarò, fece compare per mille dipendenti della Regione tra autisti, commessi, portieri (sì, proprio mille …), un kit composto da «quattro divise (due invernali e due estive), quattro camicie, due cravatte (foulard per le donne) e quattro spille raffiguranti la Trinacria», rifornendosi allo stesso fornitore di fiducia del Senato della Repubblica, per non sbagliare.

La polemica da «Schifani vende moda», quasi fosse una pesca in una pubblicità del supermercato, manda in sordina e in secondo piano tutto il resto. Che invece è il vero cuore del problema. Ovvero, l’impresa titanica a cui è chiamata la Regione, che entro il 31 dicembre deve spendere i miliardi dei fondi europei relativi alla programmazione 2014-2020. Pena, la revoca. I numeri sono emersi in un recente incontro bilaterale con il Ministro Fitto, che ha cercato di spronare il governatore. Mancano all’appello, tra Fesr e Fse, oltre 1,6 miliardi di euro.


Secondo i dati della Commissione Europea, aggiornati a giugno 2023, la Sicilia aveva speso e rendicontato solo il 61,7 per cento del Fondo di sviluppo regionale (Fesr) – circa 2,6 miliardi su 4,2 – e il 65,4 per cento del Fondo sociale europeo (Fse), che ammonta in totale a circa ottocentoventi milioni di euro. Che l’incontro tra Raffaele Fitto e Schifani sia avvenuto a margine di una manifestazione in Sicilia di Fdi dal nome “L’Italia vincente”, è un piccolo paradosso. E se l’Italia è vincente, si sarà detto Schifani, anche la Sicilia deve esserlo.

Da qui l’incontro con i capi dipartimento per dare un’accelerata alla spesa, e «utilizzare al meglio le risorse non impiegate nel poco tempo rimasto», per rendere meno amare quelle percentuali. Alcuni non si sono presentati, altri hanno sbagliato abito. Da qui la nota durissima di Schifani, che si conclude con l’invito ai dirigenti ad «indossare un abbigliamento consono alle istituzioni che rappresentano».

Dall’opposizione, i Cinquestelle fanno sapere che «ancora non esiste una ricognizione delle opere che sono state definanziate e per la programmazione 2021-2027 non si hanno praticamente notizie».

Nel frattempo, tutto si complica. La reintroduzione delle province, ad esempio, sembrava cosa fatta, con l’elezione diretta, per dare ai partiti una bella campagna elettorale in un 2024 magro di urne (ci sono soltanto le Europee). E invece, niente. Fare votare, dopo undici anni, per le provincie, costa quattro milioni di euro. Di questi tempi, un’enormità.

Proviamo a calmare gli appetiti con una bella infornata di nomine. Ci sono diciotto manager della sanità da nominare entro il 31 ottobre. Ma non c’è un accordo. Si va allora verso la specialità della casa: rinviare e prorogare gli attuali commissari.

E che dire sui rifiuti. Nel dibattito eterno sui termovalorizzatori, l’unica ideuzza è stata quella di spedire i rifiuti in Danimarca. Spesa in un anno: quaranta milioni di euro. Per non parlare della gestione dell’emergenza incendi. In Sicilia quest’anno si è battuto ogni record di ettari di terreno a fuoco. La linea della Regione sembra quella di impartire continue direttive ai Sindaci, che replicano, in una nota congiunta: «Siamo senza fondi e senza professionalità». E si scopre che su cento autocarri antincendio ordinati dalla Regione un anno fa, ne sono stati consegnati solo dodici.

Anche la Chiesa sembra aver cominciato a prendere le distanze da Schifani. Mentre le Madonie bruciavano, durante l’ultima ondata di calore di fine settembre, il Vescovo di Cefalù, Giuseppe Marciante, tuonava: «Ormai il fenomeno degli incendi è diventato insopportabile. Occorre organizzare una protesta generale davanti all’inerzia colpevole dei vari governi regionali».

Lui, il presidente, riferirà in aula all’Ars il 18 ottobre. Un evento, dato che il dibattito era atteso da luglio e chiesto invano dai deputati. Ci sarà il tutto esaurito, c’è da scommetterci. E magari metteranno come postilla all’ordine del giorno «È gradito l’abito lungo».