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06/02/2024 15:00:00

"La pena di morte, un deterrente inefficace" 

Caro direttore, le considerazioni di Katia Regina svolte nella nota “Uccidere per insegnare … a non uccidere”, mi hanno subito portano con la mente alla grottesca vicenda di Ilaria Salis, che tutti abbiamo visto incatenata e condotta in un’aula giudiziaria ungherese per essere sottoposta a un processo, di cui non sappiamo la piega che prenderà e a quale conclusione approderà.
Poiché potrebbe persino essere assolta per non aver commesso il fatto, la questione vera non è se la nostra connazionale abbia commesso o meno un crimine, ma riguarda le modalità di trattamento che le sono state e le vengono riservate prima della pronuncia della sentenza definitiva. L’incipit dell’articolo “La crudeltà elevata a metodo per fare giustizia” chiarisce bene questo passaggio.

I numerosi casi di condannati a morte negli Stati Uniti, ci dicono che la pena capitale è un deterrente inefficace come cercano di spiegare molti eminenti studiosi, scrittori e intellettuali, cui aggiungerei la lucida analisi dell’autrice dell’articolo di cui ci occupiamo. Questo discorso vale, secondo me, anche per il carcere a vita - l’ergastolo - che alcuni paesi più avanzati cercano di abolire per analoghe ragioni per le quali è stata abolita la pena di morte.

La stessa tortura che un tempo assurgeva e che ancora viene praticata in alcune parti del mondo, come mezzo “legale” per l’acquisizione delle prove, può essere considerata allo stato delle cose un lascito di un sistema oscurantista che frena il progresso giuridico e civile in atto e che ancora stenta a svilupparsi compiutamente in molti Paesi anche democratici. La stessa esasperante lentezza dei processi che giova ai colpevoli e danneggia gli innocenti, rappresenta una vera e propria tortura morale.
Non c’è dubbio che la pena di morte, per le sue terribili implicazioni morali e umane, ovunque venga applicata, va cancellata dalla faccia della Terra. Al quarto comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione, che modifica il testo originale, si afferma che “Non è ammessa la pena di morte”. Esistono Convenzioni sovranazionali che si richiamano allo spirito e al contenuto della disposizione appena riportata. Ma gli Stati Uniti e altri 50 Stati del mondo, che non l’hanno voluta recepire per inserirla nei loro ordinamenti, ricorrono ancora all’esecuzione di questo tipo assurdo e raccapricciante di condanna, senza alcuna genere di resipiscenza e di vergogna, che è il tratto peggiore della propria immagine civile, giuridica e sociale.

Ciò posto, colgo l’occasione per evidenziare che siamo di fronte a un’altra annosa drammatica situazione nella quale si trovano gli ospiti oggi nei luoghi di detenzione. E’ di queste ore la notizia di altri due detenuti che si sono suicidati nelle nostre carceri.
Il citato articolo 27, al terzo comma, sancisce che: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La cronaca conferma purtroppo che questa importante norma giuridica - che è anche e soprattutto una norma di civiltà - nella realtà spesso viene colpevolmente disattesa, nella quasi indifferenza, inadeguatezza e sciatteria delle competenti istituzioni, specie quelle preposte all’ordine e alla vigilanza per il buon funzionamento delle strutture detentive.

Al termine dell’articolo vengono opportunamente suggerite la lettura dell’Idiota di Dostoevskij e la visione di “tre ore di dolore e sofferenza”. Sulla base di queste indicazioni sono stato spinto a dare uno sguardo al celebre libro “Dei delitti e delle pene”. Un vecchio testo della casa editrice Giuffrè, che ho letto tanti anni fa. Mi hanno colpito le prime righe della presentazione dell’insigne giurista Gian Domenico Pisapia quando afferma che “Cesare Beccaria è passato alla storia e non soltanto alla storia del diritto penale, ma soprattutto per sua fervida battaglia contro la pena di morte, tanto che non v’è abolizionista che non invochi il suo nome come uno squillo di guerra contro la pena capitale”. Ma ancora di più mi ha fatto riflettere la conclusione dello stesso autore:

“Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”. E a proposito di privazione della libertà afferma che: “essendo una pena, non può precedere la sentenza, se non quando la necessità lo chieda. Il carcere è la semplice custodia del cittadino, finché sia giudicato reo, questa custodia, essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e deve essere meno dura che si possa …”
L’opera è stata pubblicata nel 1764 e rivista dall’autore due anni dopo. Alla luce delle cose fin qui dette, quella di leggerla o rileggerla, potrebbe essere una buona idea per ragionare su un tema che ancora, insieme alle guerre, affligge le società odierne.

Filippo Piccione