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07/05/2025 06:00:00

Il "massomafioso" / 1. Antonio Messina, tra mafia, logge e narcos

 Per cinquant’anni è stata una presenza costante e silenziosa negli ambienti mafiosi della Sicilia occidentale.


Antonio Messina, l’avvocato, è considerato uno degli uomini più influenti e “riservati” dell’intera galassia mafiosa del Trapanese. Non un soldato. Non un semplice favoreggiatore. Ma un “eccellente concorrente esterno” – così lo definiscono i giudici – capace di manovrare denaro, relazioni e protezioni in favore di Cosa Nostra e, soprattutto, del boss dei boss: Matteo Messina Denaro. E’ stato arrestato nei giorni scorsi.

Ricostruiamo la sua figura, il suo profilo criminale, i legami con la mafia, la massoneria e il ruolo nella latitanza di Matteo Messina Denaro. Che nei pizzini veniva chiamato "Solimano", e sarebbe stato grande finanziatore del defunto capomafia.


Nato a Campobello di Mazara nel 1946, Messina è l’incarnazione di quella mafia che non spara ma decide, tratta, protegge e investe. La recente ordinanza cautelare emessa dal Tribunale di Palermo del 23 aprile 2023 lo pone al centro della rete che per anni ha garantito il sostentamento economico alla latitanza del capomafia stragista.


Un avvocato tra mafia e massoneria
Negli anni Ottanta e Novanta Messina era già noto alle cronache giudiziarie. Avvocato penalista e massone, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e traffico internazionale di stupefacenti. Tra le accuse più gravi, quella di aver partecipato al sequestro di Luigi Corleo, suocero del potente esattore mafioso Nino Salvo, episodio chiave nella scalata dei corleonesi.

 

 

I giudici lo hanno definito un “personaggio versatile e poliedrico”, capace di usare la professione forense come copertura per affari criminali e rapporti con boss di primo piano, da Leoluca Bagarella a Rosario Spatola. In un’intercettazione è lo stesso Messina a raccontare come Bagarella avesse proposto la sua affiliazione ufficiale a Cosa Nostra: «Può fare quello che vuole», diceva di lui.


Ma accanto all’affiliazione mafiosa, un altro legame attraversa la sua storia: quello con la massoneria. Secondo quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia Rosario Spatola già nel 1996, Messina era “massone in sonno”, ossia formalmente non operativo, ma di fatto ancora legato alla loggia Domizio Torreggiani del Grande Oriente d’Italia. Era stato lui stesso a confermare la sua appartenenza massonica in una lunga conversazione via WhatsApp, intercettata nel 2022, con Giuliano Di Bernardo, già Gran Maestro del GOI.

In quel dialogo, Messina si lamentava di non aver ricevuto protezione adeguata dalla “fratellanza” durante una delle sue vicende giudiziarie più delicate – il processo per il sequestro Corleo – raccontando di aver rischiato l’ergastolo “per colpa di un giudice massone e di un avvocato massone”. Un’amarezza che lo avrebbe portato a sospendere la sua attività nella loggia. Ma l’identificazione del suo interlocutore e il tenore della conversazione suggeriscono che i contatti fossero tutt’altro che recisi.

Dunque, oltre a operare per Cosa Nostra, Messina è stato anche un uomo ponte con ambienti istituzionali, capaci di esercitare influenza in settori chiave della società. La sua figura, nella sua ambiguità e nella sua doppiezza, è l’espressione perfetta di quel potere mafioso che si infiltra, mimetizza, si muove tra le pieghe del lecito e dell’illecito.

 


I legami con Campobello
Campobello di Mazara non è solo il suo paese d’origine. È la base logistica e il crocevia di relazioni che legano Antonio Messina a una delle famiglie più potenti del Trapanese: i Bonafede. L’avvocato è zio di Salvatore Gentile, genero dello storico capomafia “Nardo” Bonafede nonchè marito di Laura Bonafede, la maestra amante di Matteo Messina Denaro. Messina è citato e raccontato nei “pizzini” trovati nel covo del boss dopo la sua cattura. E sarebbe stata proprio la Bonafede a rivelare la sua identità.
I suoi rapporti con gli storici capi di Campobello sono solidi e datati. Era legato non solo a Bonafede e Gentile, ma anche a Franco Luppino – identificato nei pizzini come “Perlana” – da sempre uomo di fiducia di Messina Denaro e detenuto per mafia. Messina, secondo le indagini, ha gestito insieme ad altri i proventi dell’oleificio “Fontane d’Oro”, controllato da Luppino, redistribuendo i profitti dell’attività per sostenere economicamente la latitanza del boss. Un ruolo chiave nella “cassa” della famiglia mafiosa.
È proprio lì che compare, sotto il nome di “Solimano”, descritto come uomo di grande potere, persino capace di mettere in crisi – si legge – “Laura e il suo amato capo mafia”.

 


Il narcotraffico 

La sua carriera criminale è corposa. Nel 1992 viene condannato a 7 anni per traffico di droga. La corte lo definisce figura di spicco nel narcotraffico internazionale, capace di gestire importazioni di centinaia di chili di stupefacenti. Nel 1997 è nuovamente condannato, stavolta insieme a pezzi da novanta come Francesco Messina Denaro e Franco Luppino, per traffico internazionale di morfina, eroina e cocaina.

 

È lui, Antonio Messina, ad organizzare e dirigere il traffico, mettendo a disposizione documenti falsi e risorse per agire anche all’estero. La sentenza del 2001 conferma il suo ruolo direttivo in un’associazione per delinquere, in grado di importare droga dall’Asia e distribuirla in Europa. Viene condannato a 23 anni per concorso esterno e narcotraffico.

Era capace di gestire importazioni di centinaia di chili di stupefacenti .

Il suo impegno nel narcotraffico internazionale ed interno era considerato versatile e costante.
Ma la sua influenza non si è mai spenta. Anche dopo la scarcerazione, le indagini dimostrano come Antonio Messina abbia continuato a gestire affari e relazioni, trasformandosi nel principale finanziatore e organizzatore delle attività economiche utili a garantire la latitanza di Matteo Messina Denaro.
Ed erano diverse le famiglie mafiose che potevano contare su di lui.

 


(CONTINUA)