"È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quando noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia: noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.”
(Giovanni Pascoli, Il fanciullino)
Non sono molti i miti letterari, e teatrali, che hanno goduto e godono tuttora della fortuna, pressoché intramontabile, che è toccata a Peter Pan. E forse non ce ne sono affatto (se si escludono soprattutto i personaggi di Conan Doyle e di Aghata Christie). In realtà Peter Pan non ha mai cessato di ammaliarci tutti, fin da bambini, tanto nelle sue versioni fiabesche che in quelle cinematografiche. Già nel 1924 era il protagonista di un film muto. Nel 1952 la Walt Disney ne trasse uno splendido cartone animato in cui tuttavia la favola originaria perdeva gran parte della sua carica crudele e disperata. Ma la sua influenza sulla cultura novecentesca va anche oltre l’ambito strettamente letterario. Nel 1983 lo psicologo Dan Kiley pubblicava un saggio intitolato "The Peter Pan Syndrome: Men Who Never Grown Up" in cui individuava una specifica neotenia psichica denominata la Sindrome di Peter Pan che consiste nell’incapacità patologica o nel rifiuto viscerale di diventare adulto e di assumersi delle responsabilità in un contesto sociale costituito da individui emancipati e consapevoli. Lo spunto è dichiaratamente tratto dall’opera di James M. Barrie intitolata Peter e Wendy che inizia proprio con questa agghiacciante affermazione: “Tutti i bambini crescono, meno uno”. In tempi un po’ più recenti si affermò a livello di massa l’uso del termine Peterpanismo (passando per una fase desunta in buona sostanza dall’opera del critico Holbrook Johnson che più propriamente parlava di peterpanteismo) per denominare un certo tipo di infantilismo inguaribile tipico del consumismo più refrattario all’assunzione di ruoli sociali maturi e produttivi. Il dramma di Peter, che in fondo è il medesimo dramma di Barrie, è espresso in incipit in forma lapidaria ed epigrafica. Ed è assunto da Kiley, e dai suoi più superficiali epigoni, a dramma collettivo di un’intera epoca o società di eterni giovani che non accettano di assumere un ruolo consapevole e adulto, rifugiandosi in una artefatta e anacronistica fanciullezza che consente loro l’esenzione da responsabilità troppo impegnative.
In realtà, nel caso di Peter Pan come anche di James M. Barrie, si tratta di un dramma ben più complesso e profondo che attiene a un insieme di problemi: l’esilio esistenziale, il ripudio materno, una verginità insormontabile, una condizione ambigua tra mondi inconciliabili.
Barrie fu sempre molto complessato dalla sua statura minima (poco più di un metro e cinquanta centimetri) e dalla sua insipienza con le donne. Al contrario era dotato di un notevole talento drammaturgico e letterario che mise soprattutto al servizio del suo fedelissimo pubblico infantile o adolescenziale. Ebbe anche un difficile rapporto con la madre che per un verso fu la fonte ispiratrice di un repertorio legato al patrimonio popolare scozzese, ma per un altro verso rappresentò il tormento e la gelosia di una esclusione da un rapporto più solidale (la madre gli preferì sempre il fratello David, morto ad appena tredici anni in seguito a una disgrazia).
L’interdizione materna è uno dei temi più drammatici del Peter Pan iniziale, che rimane confinato in un mondo di fate e di uccelli nei giardini di Kensington senza poter rientrare in seno alla famiglia e ai suoi affetti. La condizione di reietto e di diseredato induce Peter Pan a instaurare rapporti di solidarietà con altre figure di emarginati (i bimbi perduti) e altri supplenti di un vincolo familiare (la madre-sorella Wendy e la madre miniaturizzata Trilli, ovvero Tinker Bell, impossibile oggetto del desiderio frustrato). Eroe trionfante, che si esibisce al volo in duelli danzanti con l’acerrimo nemico Capitan Uncino, Peter Pan è anche un inquieto emblema della crisi, una figura decedente (fa Pascoli a Oscar Wilde) e problematica divorata da irrisolvibili dilemmi (edipici e identitari, in primo luogo) per i quali invoca una vendetta redentrice. Se Capitan Uncino aborre e combatte il tempo (l’orologio inghiottito dal terribile coccodrillo persecutore), Peter Pan ha orrore del non-tempo, dalla stasi cronologica, dallo stallo esistenziale, nell’immutabile “isola che non c’è”. Per questo si proclama un “vendicatore”, forse di un vorace e implacabile Saturno, ma subito dopo rivendica la sua essenza di gioia e giovinezza, eterne e purissime.
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