Comincia con una citazione di Borges il romanzo L’ora di greco, pubblicato in Corea nel 2011 e conosciuto in Italia soprattutto dopo il Nobel per la Letteratura 2024 all’autrice sudcoreana Han Kang.
Un incipit ben studiato perché la spada, il dolore, la coppia, l’amore, sono anticipazione delle tematiche che si affronteranno nel testo. Dove si scopre un ulteriore pregio: il passaggio dal narratore omodiegetico delle prime pagine alla terza persona nei capitoli successivi; un’alternanza che continua in tutto il libro e crea un ritmo piacevole.
Si avverte da subito che chi scrive ha un’ampia cultura, che spazia dalla conoscenza del francese alla struttura della lingua greca.
Così, la lettura scorre trascinando il lettore nel mondo di una donna che ha perso l’uso della parola, tracciando una sorta di mistero perché, se è vero che veniamo informati delle cause del trauma che ha bloccato il suo linguaggio, ovvero un divorzio e l’allontanamento dal figlio, della donna vestita di nero non si conosce neanche il nome.
Una costruzione furba e potete che invita a proseguire anche per conoscere meglio lui, il professore di greco delle lezioni che la donna frequenta.
La scrittura diventa sempre più accattivante, a volte straziante.
Il personaggio maschile ha vissuto in Germania, sta perdendo la vista e questo crea una serie di riflessioni legate al tema dello straniamento, dello sradicamento, del razzismo. Ma, nonostante ciò, sembra di scorgere un messaggio ulteriore: non ci sono barriere né differenze tra gli esseri umani, se non quelle create dall’ignoranza e dall’egoismo; come anche le lingue, apparentemente divisorie, non sono che un ponte tra le solitudini umane. Ed ecco che il romanzo diventa filosofico e, in un certo senso, filologico-linguistico. Dalle lezioni del professore si evince come il cinese antico abbia alcune caratteristiche simili alle altre lingue antiche, polisemiche, misteriose, affascinanti.
Metaforicamente la parola è vita, e Han Kang ne è ben consapevole dato che la protagonista de L’ora di greco aveva già avuto un periodo di impossibilità a parlare e la prima parola che l’aveva risvegliata dal suo mutismo, a sedici anni, era stata “Bibliothèque”, il luogo dove si custodiscono le parole.
Similmente alla donna afasica, il linguaggio del romanzo a volte si sfalda per diventare flusso di parole e poesia:
“Mi dicevi […] che la bellezza era solo in ciò che è intenso, carico di vibrante energia.
Che la vita non doveva trasformarsi in sopportazione.
Che sognare un mondo diverso da qui e ora era una colpa.
Per te la bellezza era una strada affollata di gente.
Una fermata di tram inondata dal sole infuocato.
Il battito accelerato del cuore.
I polmoni che si gonfiano.
Le labbra ancora calde.
E altre labbra sfregate forte contro le tue.”
È straordinario come, in una storia di incomunicabilità ambientata in Corea, il lettore riesca a immedesimarsi in ogni personaggio.
Ciò accade perché questo libro ha a che vedere con la sensazione di perdere qualcosa, con il concetto prettamente orientale del lasciare andare, del cambiare, del fluire.
Scorrere, invecchiare, non è forse qualcosa di inevitabile che ogni essere vivente deve imparare ad affrontare?
E, ancora, se mettessimo da parte la voglia di sistematizzare ogni cosa, se facessimo pace con l’idea di non comprendere e ci lasciassimo andare alle sensazioni del corpo? Al senso del tatto, a un abbraccio?
Han Kang ce lo racconta con i dialoghi lievi di due personaggi enigmatici e con il loro rapporto apparentemente assurdo, perché il professore non vede e l’allieva non parla. Eppure, nonostante tutto, la comunicazione - espressa con la vicinanza tra i corpi - è la chiave. È la salvezza, l’antidoto, non soltanto alla malinconia di queste preziose pagine ma anche, soprattutto, agli struggimenti dell’esistenza umana.
Sabrina Sciabica