La Sicilia e quella politica che trasforma tutto in affare di pochi
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Siete mai entrati al Palazzo Reale di Palermo? È una fortezza, ma anche la più antica residenza reale d’Europa, dimora dei sovrani del Regno di Sicilia, sede imperiale con Federico II. È conosciuto anche come Palazzo dei Normanni, ed è sede dell’Assemblea regionale siciliana. L’ufficio più importante è quello del presidente, una delle cariche più importanti e ambite nella politica siciliana.
E si fa presto a capire il perché. L’ufficio del presidente dell’Assemblea regionale non è solo il luogo dove si discute di leggi e riforme, ma anche dove si coltivano relazioni, si pianificano eventi, si distribuiscono incarichi e – soprattutto – si gestisce il consenso. Il tutto con un certo gusto per l’estetica: Audi A6 nera, portavoce dinamica, sorelle versatili e imprenditrici multitasking. È il nuovo volto del potere siciliano. Più smart, più elegante. Ma sempre affarista.
Il protagonista di questa nuova puntata della serie infinita “Scandali a Sud” è Gaetano Galvagno, presidente dell’Assemblea regionale siciliana, classe 1985, pupillo di Ignazio La Russa e promessa di Fratelli d’Italia. Indagato per corruzione e peculato, avrebbe usato fondi pubblici per finanziare eventi organizzati da società amiche e, in cambio, ottenuto favori, assunzioni, consulenze e pure un abito sartoriale. Una rete fitta, elegante, perfettamente incardinata nella nuova borghesia politica siciliana.
Lo schema – lo dice la Procura – è semplice e funziona benissimo: la Regione finanzia un evento culturale, l’imprenditore ringrazia con un incarico, il politico capitalizza consenso. Tutti soddisfatti. È la cultura del ritorno.
Ma c’è di più. C’è l’auto blu dell’Ars trasformata in Uber personale, con viaggi non per «esigenze istituzionali», ma per accompagnare amici, sorelle, la mamma, il giardiniere e l’intero entourage galvagnano. Un’abitudine già vista – e processata – con Gianfranco Miccichè, che dalla sua villa a Cefalù osserva e difende: «So cosa significa avere questi pesi addosso».
Tutto comincia da quello che sembrava un capitolo chiuso: lo scandalo dei tre milioni e mezzo di euro destinati alla partecipazione della Regione Siciliana al Festival di Cannes del 2023, con una mostra celebrativa sul tema «donne e cinema». Un progetto sontuoso, poi stoppato dal governatore Renato Schifani per l’esosità dell’impegno. Ma proprio da quel filone, gestito all’epoca da Manlio Messina, big di Fratelli d’Italia ed ex assessore al Turismo, si apre la pista che ha portato agli attuali guai giudiziari.
In mezzo ci sono nomi, relazioni, società e incarichi che si intrecciano. Al centro, ancora una volta, c’è lei: Sabrina De Capitani, all’epoca key account della Absolute Blue, la società lussemburghese titolare del mega-evento, e oggi ex portavoce di Galvagno. Da quel punto di partenza si arriva fino a oggi, con una nuova rete di fondi regionali, eventi, affidamenti e favori che ha attirato l’attenzione della Procura di Palermo.
A gestire i passaggi e compilare le note spese c’era Roberto Marino, autista fidato di Galvagno. Il conto? A carico dell’Assemblea. Ora anche lui è indagato. Come lo sono Sabrina De Capitani, la portavoce-regista di questo sistema, e Marcella Cannariato, la lady Dragotto, moglie dell’imprenditore Tommaso Dragotto e punto di snodo del cerchio magico.
Il caso ha scosso perfino i velluti del Parlamento. Dopo che il caso è scoppiato sui giornali, in Aula Galvagno ha preso la parola: «Questa Assemblea non è un tribunale. E questa seduta non è un processo». Ha difeso la propria posizione con l’eleganza che gli è riconosciuta, e una punta di vittimismo: «Se mi dimetto, do più valore a un messaggio su un social che alla Costituzione». Il governatore Schifani era lì ad ascoltarlo. Più preoccupato, forse, che solidale.
Perché in ballo c’è anche Elvira Amata, assessora al Turismo della Giunta Schifani, pure lei indagata. Secondo i pm, avrebbe erogato fondi pubblici e ricevuto in cambio favori: un’assunzione per il nipote, una consulenza da tremila euro al mese per il suo segretario. Il sistema? Sempre quello. I volti? Gli stessi. Le carte? In Procura.
Nella seduta del Parlamento siciliano dedicata ad affrontare l’ultimo caso che travolge il centrodestra in Sicilia, la maggioranza ha rinnovato la fiducia a Galvagno, l’opposizione ha balbettato, Totò Cuffaro ha mandato i suoi a sostegno. L’unico a invocare le dimissioni è stato Ismaele La Vardera, ex Iena, oggi nel Gruppo misto: «Si autosospenda. E in caso di rinvio a giudizio, si dimetta». Voce nel deserto.
Intanto, nell’inchiesta compaiono nomi in codice: «Uomo 6», «Donna 3». Un codice da romanzo di spionaggio. «Uomo 6» – dice Galvagno in un’intercettazione – «me lo ha detto lui, i soldi glieli sto dando perché me lo ha chiesto lui». Secondo gli investigatori, sarebbe una figura romana, influente, molto vicina ai vertici di FdI. L’ombra lunga della capitale sulla politica siciliana. E mentre la bufera su Fratelli d’Italia sembra solo all’inizio, il teatrino siciliano continua: tra peculati e pecore nere, tra eventi culturali e incastri parentali, tra comunicazione e comunicati stampa.
In Sicilia resta in carica un presidente dell’Ars politicamente fuori gioco, un cavallo zoppo con un’immagine ormai compromessa. Le accuse mosse dalla magistratura non parlano di leggerezze, ma di reati gravi: corruzione e peculato. Mentre due protagoniste chiave dell’inchiesta – Sabrina De Capitani e Marcella Cannariato – si sono dimesse, Galvagno resta al suo posto, protetto dalla retorica della presunzione d’innocenza e dalla solidarietà imbarazzata dell’Aula.
Ma le parole intercettate raccontano una verità scomoda. De Capitani si muove come un’ape regina vorace, tra borse di lusso e bandi pilotati. Galvagno appare in balìa del suo cerchio magico, incastrato tra favori familiari e incarichi su misura. Una coppia impietosamente descritta dalle conversazioni raccolte: lei che rastrella, lui che annuisce. Più che complice, forse ingenuo. Ma non meno responsabile.
E quando il Parlamento si trasforma in un tribunale dell’assurdo, il bersaglio diventano i giornalisti, accusati di fare il proprio mestiere: raccontare. Come se fosse la stampa, e non la politica, a infangare le istituzioni. Come se la notizia del malaffare fosse più grave del malaffare stesso. In Aula, molti fingono di ignorare che le notizie pubblicate derivano da atti giudiziari ufficiali. Un gioco delle parti antico, tra ignavi, vassalli e indignazioni a comando. Tutto già visto, qui a Palazzo dei Normanni. E chissà cos’altro ancora ci toccherà vedere.
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