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30/07/2025 08:06:00

Mazara. Incendiò un mezzo e finse un investimento: condanna definitiva per Giacalone

 Assolto in primo grado dalle accuse di danneggiamento a mezzo incendio doloso e simulazione di reato, in appello era stato, invece, ritenuto responsabile di entrambi i reati “avvinti” per la continuazione “sotto il più grave reato di cui all'art. 367 cod. pen. (simulazione di reato, ndr)” e condannato alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione. Sentenza, adesso, confermata dalla sesta sezione della Corte di Cassazione.  

 

E’ definitiva, quindi, la pena inflitta in appello al 69enne mazarese Lucio Giacalone, fratello di Bruno Giacalone, coinvolto nell’operazione antimafia “Annozero” (condannato a 18 anni in primo e secondo grado, lo scorso aprile per Bruno Giacalone la Cassazione ha annullato la sentenza con rinvio in appello per la rideterminazione della pena). In primo grado, Lucio Giacalone, difeso dall’avvocato Vito Daniele Cimiotta, era stato assolto dal giudice monocratico di Marsala il 6 marzo 2023. Ma in secondo grado, lo scorso 14 novembre, la Corte d’appello di Palermo ha ribaltato la sentenza, condannandolo. Giacalone è stato accusato di aver incendiato, il 7 agosto 2017, a Mazara, una piattaforma aerea elevabile, il cosiddetto “ragno”, di proprietà dell’imprenditore edile Michele Tumbiolo. E di avere riportato, nell’attentato incendiario, delle ferite (due fratture all’anca). Per questo, secondo l’accusa, avrebbe simulato di essere stato investito da un’auto pirata a circa 130 metri di distanza dal luogo dell’attentato, dove venne trovato, quella notte, dalla polizia. Per gli investigatori, insomma, si era ferito nell’attentato e poi stava cercando di allontanarsi. E per questo motivo è poi finito a processo anche a Bologna per truffa a compagnia assicurativa. In primo grado, a scagionarlo era stata una perizia. 

 

“C'è qualche cosa che non va nei tempi – aveva sostenuto l’avvocato Cimiotta - Il soggetto che viene ripreso dalle telecamere a 130 metri di distanza dal luogo dell'incendio potrebbe non essere lo stesso trovato seduto nella via Mantova. Il primo soggetto, con due fratture all'anca, avrebbe percorso 130 metri in due minuti. Secondo la Procura sarebbe lo stesso che avrebbe percorso gli ultimi 20 metri in 5 minuti. Com’è possibile che per 130 metri ci stia due minuti e per 20 metri 5 minuti?”. Secondo l’accusa, il Giacalone, per allontanare da se i sospetti quale possibile autore dell’attentato incendiario, avrebbe presentato in Commissariato denuncia contro ignoti affermando che quella notte, intorno alle 3, in via Leto, una Fiat Panda lo investì, fuggendo subito dopo. Il fatto è emerso nell’inchiesta di mafia “AnnoZero”. Al fratello Bruno Giacalone è stato, infatti, contestato di aver cercato di obbligare il Tumbiolo a ritirare la querela. “Il Tribunale – scrivono, adesso, i giudici della Cassazione - aveva ritenuto non sussistente la certezza del coinvolgimento del Giacalone nell'incendio, circostanza che incideva sulla dimostrazione del delitto di simulazione, funzionale a deviare da sé stesso i sospetti per il danneggiamento di cui al capo A) (danneggiamento, ndr), in quanto, sulla base degli esiti della perizia disposta era stato escluso che il ricorrente, alla luce della consistenza e natura delle lesioni riportate nell'occorso ed a causa dell'età, sarebbe stato impossibilitato a percorrere, in appena due minuti, 130 metri intercorrenti tra il luogo del danneggiamento e quello in cui veniva notato in terra dai militari intervenuti. La Corte di appello, condividendo le ragioni del Procuratore generale, è pervenuta ad una riforma della sentenza di assoluzione assegnando rilevanza, da un canto, al fatto che l'esito della perizia con cui era stata esclusa la percorrenza da parte dell'imputato di 130 metri in appena due minuti, non fosse determinante, essendo il tempo da prendere in esame quello di venti minuti, dall'altro, alle altre testimonianze e risultanze tecniche che davano contezza del forte odore di benzina che Giacalone, che presentava delle bruciature agli arti inferiori, emanava al momento del rintraccio”. Ma il ricorso dell’imputato è stato ritenuto “inammissibile” dalla Cassazione “in quanto manifestamente infondato”.