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12/08/2025 06:00:00

Mafia: le stragi del 92-93, la ricerca della verità diventa un ostacolo. Per chi? /2

La memoria depositata dal senatore Roberto Scarpinato in Commissione parlamentare antimafia è un documento che scuote, perché mette in fila fatti, anomalie e interrogativi rimasti troppo a lungo senza risposta. Un mosaico che collega le stragi del ’92 e ’93 — da Capaci a via D’Amelio, da Firenze a Milano, fino a Roma — a un intreccio di complicità e presenze esterne che vanno oltre la mafia (qui la prima parte della nostra inchiesta).

 

Nella memoria di Scarpinato lo sguardo si concentra su ciò che resta nell’ombra: figure femminili coinvolte nelle stragi di Firenze e Milano, non appartenenti a Cosa nostra; cariche esplosive «potenziate» con materiale militare; mani sconosciute che, dopo Capaci, si sono introdotte nell’ufficio di Giovanni Falcone per cercare file su Gladio e delitti politici; attentati mai rivendicati ma condotti con tecniche proprie della destra eversiva.

Non sono semplici dettagli tecnici: ogni elemento suggerisce la presenza di un reticolo criminale e politico, capace di condizionare scelte e operazioni. Scarpinato chiede che la Commissione smetta di limitarsi al già noto e indaghi sulle interferenze di apparati deviati, reti eversive e complicità istituzionali.

Questa parte del lavoro mira a ricostruire piste investigative, delineare i profili degli “esterni” evocati e indicare nuove linee di approfondimento. È un racconto che intreccia perizie sugli ordigni, testimonianze, atti processuali e documenti riservati, separando i fatti dalle ipotesi.

Perché la verità, qui, non è solo un dovere morale: è un atto di giustizia verso un Paese che porta ancora addosso le cicatrici di quegli anni di sangue e misteri.

 

 

 Capitolo: Le anticipazioni sulla strage di Capaci dell’agenzia di stampa “Repubblica”

A distanza di 48 e 24 ore dalla strage di Capaci, l’Agenzia Giornalistica La Repubblica diffondeva un’inquietante anticipazione: entro breve si sarebbe verificato «un bel botto esterno» destinato a interferire con le elezioni in corso del nuovo Presidente della Repubblica.
Questa comunicazione, apparentemente oscura per il pubblico generale, assume un significato potenzialmente dirompente se letta alla luce degli eventi successivi.

Le indagini sulla direzione dell’agenzia

Le attività investigative della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.) hanno consentito di identificare nella figura di Ugo Dell’Amico il direttore responsabile dell’agenzia. Dell’Amico era figlio di Lando Dell’Amico, fondatore (fin dal 1980) e “direttore politico” della testata.

Il profilo di Lando Dell’Amico presenta elementi di rilievo investigativo: Militanza per anni nell’estrema destra italiana; Legami con il principe Junio Valerio Borghese; Coinvolgimento nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Nel 1974 fu tratto in arresto in esecuzione di un mandato di cattura emesso dal Giudice Istruttore di Milano.

 

 Le domande aperte

La notizia diffusa dall’agenzia pone due quesiti centrali: Chi erano le fonti in grado di preannunciare l’imminente esecuzione della strage di Capaci? A chi era rivolto il messaggio, comprensibile soltanto a un pubblico ristretto di addetti ai lavori abbonati all’agenzia?

 

Il collegamento con le dichiarazioni di Giovanni Brusca

Nel processo a carico del senatore Giulio Andreotti, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha dichiarato in aula che Salvatore Riina gli aveva confidato come, con la strage di Capaci, Cosa Nostra avesse perseguito due obiettivi: L’eliminazione del giudice Giovanni Falcone; L’impedimento dell’elezione di Andreotti alla Presidenza della Repubblica.

 

 Richieste alla Commissione

Alla luce di tali elementi, si propone che la Commissione: Acquisisca copia degli articoli dell’agenzia La Repubblica contenenti le anticipazioni sulla strage.

Reperisca presso la Procura della Repubblica di Palermo copia delle indagini svolte dalla D.I.A. nell’ambito del procedimento penale n. 2566/98 R.G.N.R. a carico di Licio Gelli + 13. Acquisisca copia della trascrizione delle dichiarazioni rese da Giovanni Brusca nel dibattimento del processo a carico del senatore Giulio Andreotti.

 

 

 L’episodio delle anticipazioni dell’agenzia La Repubblica rappresenta uno dei punti più delicati nell’analisi delle connessioni tra informazione, reti politiche e strategie di Cosa Nostra nel periodo immediatamente precedente alla strage di Capaci. Il riferimento, a poche ore dal delitto, a un «bel botto esterno» idoneo a condizionare l’elezione del Capo dello Stato, appare difficilmente spiegabile come mera coincidenza. La circostanza che tale previsione sia stata veicolata da un organo di stampa con una platea ristretta e qualificata di abbonati — presumibilmente politici, funzionari, imprenditori e soggetti istituzionali — lascia intendere che il messaggio fosse potenzialmente mirato a un pubblico “iniziato”, in grado di coglierne la portata. Il profilo del fondatore dell’agenzia, Lando Dell’Amico, e i suoi trascorsi nell’estrema destra e in ambienti legati a figure eversive come Junio Valerio Borghese, nonché il suo coinvolgimento (pur senza condanne definitive) in indagini relative alla strage di Piazza Fontana, collocano questa vicenda in un contesto in cui il confine tra politica, informazione e apparati paralleli dello Stato era particolarmente labile.

 

Le dichiarazioni rese da Giovanni Brusca rafforzano l’ipotesi che la strage di Capaci fosse stata concepita non soltanto come atto di vendetta e intimidazione nei confronti della magistratura antimafia, ma anche come strumento per influenzare in maniera determinante la massima scelta istituzionale del Paese: l’elezione del Presidente della Repubblica. La concomitanza temporale tra le anticipazioni dell’agenzia e gli obiettivi politici dichiarati da Brusca suggerisce due possibili scenari: Infiltrazione o contiguità informativa tra ambienti vicini a Cosa Nostra e canali di informazione ristretti. Partecipazione consapevole di settori dell’informazione a una strategia destabilizzante di più ampio respiro, in cui la strage costituiva un tassello di un disegno politico-criminale.

 

 

 

Elio Ciolini: l’uomo che sapeva tutto delle stragi

 

Alla fine del 1991, Elio Ciolini – già coinvolto nelle indagini per la strage di Bologna – viene arrestato. Con lui, gli inquirenti trovano documenti e numeri telefonici che attestano contatti con i servizi segreti italiani, statunitensi e di altre nazioni. Un patrimonio informativo che, pochi mesi dopo, si trasformerà in previsioni inquietanti.

Lettere che anticipano la stagione di sangue

Il 4 marzo 1992, Ciolini invia al Giudice Istruttore di Bologna una missiva: tra marzo e luglio, avverte, ci saranno esplosioni in luoghi pubblici, il sequestro e l’omicidio di esponenti politici di PSI, PCI e DC, e perfino l’eliminazione del futuro Presidente della Repubblica.
Il 18 marzo, un’altra lettera ribadisce l’allarme: imminente un’operazione terroristica ai vertici del PSI. In un appunto allegato, Ciolini descrive una strategia di destabilizzazione che coinvolge mafia, massoneria e ambienti eversivi, volta a deviare l’attenzione pubblica dalla lotta alla mafia verso un “pericolo maggiore”.

 

Le previsioni diventano realtà

Pochi giorni dopo, il 12 marzo 1992, viene assassinato a Palermo Salvo Lima, uomo chiave della DC e referente di Giulio Andreotti. Si scopre che Cosa Nostra aveva pianificato anche l’uccisione di Claudio Martelli e un attentato o rapimento contro Andreotti o suo figlio.
La stagione stragista raggiunge l’apice il 19 luglio 1992 con la strage di via D’Amelio e prosegue nel 1993 con le bombe di Firenze, Milano e Roma, esattamente come Ciolini aveva previsto. 

 

Il mistero delle fonti

Dopo le sue lettere, il Ministro dell’Interno Scotti e il Capo della Polizia inviano dispacci di allerta a tutte le prefetture. Ma resta la domanda:
Come faceva Ciolini a sapere?
E se non era lui la fonte diretta, chi lo utilizzò per lanciare l’allarme?

 

Un piano nato a Enna

Le dichiarazioni di Ciolini si intrecciano con quelle di vari collaboratori di giustizia che, dal dicembre 1992, raccontano di riunioni segrete tenute nella provincia di Enna nell’autunno 1991. Lì, un ristretto vertice di Cosa Nostra approvò un piano suggerito da soggetti esterni – massoni, politici e figure della destra eversiva – per utilizzare omicidi e stragi come strumenti di destabilizzazione politica.
Obiettivo: creare il vuoto nell’assetto istituzionale e aprire la strada a nuove forze politiche. Inizialmente, il riferimento era una Lega meridionale; dal 1993, con la nascita di Forza Italia, il sostegno si spostò verso il nuovo partito.

 

Le menti dietro le bombe

Un’informativa della DIA del 1993 parlava già di un’“aggregazione di tipo orizzontale” dietro le stragi, formata da soggetti con interessi diversi ma convergenti, guidati da menti esperte di terrorismo, comunicazione di massa e relazioni politiche.
Il primo a rivelare i dettagli dei vertici di Enna fu il pentito Leonardo Messina, aprendo uno squarcio su un disegno criminale che andava ben oltre Cosa Nostra.

 

 

 

 

 L’informazione che bruciava nelle mani di Borsellino

Dalle convergenti dichiarazioni di Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Agnese Borsellino, e dalle stesse confidenze che Paolo Borsellino aveva lasciato trapelare la sera del 25 giugno 1992, emerge con chiarezza che il magistrato era giunto in possesso di informazioni riservatissime, capaci di incidere non soltanto sulle sorti di taluni vertici dei servizi segreti e delle forze di polizia, ma anche di mettere a nudo i legami di “complici eccellenti” della strage di Capaci e i suggeritori della strategia stragista.

Messina gli aveva indicato con precisione l’area di appartenenza di questi soggetti esterni a Cosa Nostra, ma funzionali al suo disegno.
Borsellino aveva compreso che dietro la strage di Capaci non vi fosse soltanto la mafia: altre forze, potenti e trasversali, si muovevano nell’ombra.

 

L’accelerazione della Strage

La decisione di riversare nei verbali della Procura di Caltanissetta le informazioni annotate nell’ormai celebre agenda rossa lo rese un bersaglio da eliminare senza indugio.

Fu così che la macchina della strage subì un’improvvisa accelerazione. Come attestano le intercettazioni dei colloqui carcerari di Totò Riina, la richiesta di anticipare l’azione giunse da terzi, che gli rappresentarono “motivi di estrema urgenza”.

Un’urgenza talmente inspiegabile in termini di interesse mafioso che Riina, incalzato da Raffaele Ganci, preferì troncare ogni discussione assumendosi personalmente la responsabilità. “Questo è pazzo, porterà alla rovina l’organizzazione”, confidò Ganci a Salvatore Cancemi, comprendendo che il capo di Cosa Nostra stava onorando impegni presi con soggetti esterni.

 

Una Strage contro l'interesse di Cosa Nostra

Dopo Capaci, il Parlamento stava discutendo il decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306, che introduceva il carcere duro del 41 bis e l’ergastolo ostativo.
Il clima era tale che, senza altre stragi, la mancata conversione in legge appariva alla portata di Cosa Nostra.

Eppure, l’uccisione di Borsellino il 19 luglio, a ridosso del voto del 7 agosto, produsse l’effetto opposto: l’indignazione popolare travolse ogni resistenza, e il decreto venne convertito in legge. Segno evidente che il movente dell’accelerazione non risiedeva negli interessi dell’organizzazione mafiosa, ma altrove.

 

 

L’Agenda Rossa: obiettivo primario

Non bastava togliere di mezzo Borsellino: bisognava far sparire l’agenda rossa. E per questa operazione non potevano essere impiegati uomini di Cosa Nostra, vincolati al rischio di essere notati nella scena affollata e sorvegliata di via D’Amelio. Servivano figure insospettabili, dotate di credenziali ufficiali.

 

Gli uomini in giacca e cravatta

Il sincronismo operativo fu perfetto: appena compiuta la strage, mentre i mafiosi si dileguavano, comparvero uomini in giacca e cravatta, “gente di Roma”, appartenenti ai servizi segreti, già noti agli uffici di Arnaldo La Barbera. Come si legge nella sentenza del 20 aprile 2017 della Corte d’Assise di Caltanissetta:

“Tutt’altro che rassicuranti… sono le emergenze istruttorie relative alla presenza, in via D’Amelio, nell’immediatezza della strage, di appartenenti ai servizi di sicurezza, intenti a ricercare la borsa del Magistrato… tutti ‘sti… giacca e cravatta… senza una goccia di sudore… gente di Roma…”.

E ancora: “Un uomo in borghese… alla richiesta di chiarimenti… si qualificava come appartenente ai Servizi… vi era persino un veloce scambio di battute… sulla borsa di Paolo Borsellino… o si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano”.

 

Un filo spezzato nel fumo

Da via D’Amelio scomparve così, in quei minuti convulsi, l’agenda rossa. In quelle pagine Paolo Borsellino aveva condensato il filo che univa la mafia ad altre forze, in un disegno di destabilizzazione politica. Quel filo, se giunto nelle mani dei magistrati, avrebbe potuto cambiare la storia. Il 19 luglio 1992, insieme a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta, fu uccisa anche la possibilità di svelare completamente quella verità. Una verità che ancora oggi si intravede, ma che rimane prigioniera delle ombre che allora si mossero tra il fumo e le macerie.  

 

Qui il link con la memoria completa depositata in commissione antimafia da Roberto Scarpinato.