Il giudice, la petizione e la deriva del diritto. La giustizia e la compassione, i fatti
Adesso c’è anche la petizione online. La lancia l’utente Elisabetta, che con un click ha già raccolto quarantacinquemila firme e che, con una lucidità e una foga che i professionisti della politica si sognano, accusa un giudice di Torino di aver giustificato la violenza contro una donna. Il giudice Paolo Gallo, nella sua sentenza, avrebbe minimizzato un pestaggio, una violenza, affermando che «il marito va compreso» per la richiesta di separazione della moglie. Un insulto a tutte le donne, un’ingiustizia evidente che non può passare inosservata. E allora, tutti a chiedere la sua rimozione immediata, perché la violenza non si giustifica.
E a leggere la petizione, a guardare il numero di firme che sale come una febbre, viene da pensarci un attimo: ma davvero un giudice, in Italia, nel 2025, si sognerebbe di scrivere una cosa del genere? Davvero ha giustificato la violenza? E soprattutto, che significa avere «un sistema giudiziario più giusto e compassionevole», come auspica l’appello? In Italia, dove il concetto di giustizia è un elastico che si allunga e si accorcia a seconda di chi tira, un sistema compassionevole suona come un ossimoro: è un po’ come quando Matteo Messina Denaro si definiva «un mafioso onesto».
Se la giustizia ha bisogno della compassione, significa che i fatti non bastano più. E se la legge ha bisogno dell’indignazione delle piazze virtuali, forse stiamo andando davvero male. Il fatto è che, a forza di seguire i titoli dei giornali, le petizioni online, i «si dice» e «si narra che», si perde il senso del vero.
Ricostruiamo la vicenda, per come è stata raccontata. Il clamore nasce in particolare da un’espressione: «Va compreso». Così il giudice del tribunale di Torino Paolo Gallo si è espresso nelle motivazioni di una sentenza che, a giugno scorso, ha assolto un uomo dall’accusa di maltrattamenti nei confronti dell’ex compagna, condannandolo solo a un anno e sei mesi per lesioni. Secondo il magistrato, il pestaggio del 28 luglio 2022 – sette minuti di violenza che hanno lasciato Lucia Regna, quarantaquattro anni, con il volto ricostruito da ventuno placche di titanio e un nervo oculare lesionato – non fu «un accesso d’ira immotivato», ma «uno sfogo riconducibile alla logica delle relazioni umane».
La donna, scrive il giudice, avrebbe «sfaldato un matrimonio ventennale» comunicando la separazione «in maniera brutale» (con un messaggio su WhatsApp, dopo venti anni di matrimonio). Gli insulti e le minacce – «pu…a», «non vali…», «ti ammazzo» – vengono definiti «frasi da calare nel contesto della dissoluzione della comunità domestica, umanamente comprensibile». L’imputato, ritenuto «sincero e persuasivo», resta dunque libero. La pm Barbara Badellino aveva chiesto quattro anni e mezzo. «La sentenza viviseziona e mortifica la vittima, mentre è indulgente verso l’uomo che le ha sfondato il volto», ha detto l’avvocata di parte civile Annalisa Baratto. I due figli di Lucia, costituitisi parti civili, si sono fatti promotori di una campagna contro la violenza di genere: lo scorso 25 novembre hanno affisso a scuola la foto del suo volto tumefatto con la scritta «Donne, denunciate subito».
Questo è il modo in cui la vicenda, dolorosissima, è stata raccontata. Per curiosità, sono andato a leggermi le carte del processo. Sono disponibili anche online. E le carte del processo in questione dicono ben altro. Non c’è un giudice che giustifica la violenza, ma un collegio (un uomo e due donne, tra l’altro) che, per l’esattezza, al contrario, condanna la violenza. Il presidente del collegio Paolo Gallo non ha minimizzato nulla, ma ha condannato l’uomo a un anno e sei mesi per lesioni. Ha applicato la legge.
Il fatto è che si tratta di una vicenda molto più complessa di quanto l’indignazione facile lasci intendere. Il giudice, nelle motivazioni, non assolve la violenza, ma anzi la condanna e condanna l’uomo a un anno e sei mesi per le lesioni, e poi assolve per i maltrattamenti che, nella legge, sono cosa ben diversa. Il reato di maltrattamenti in famiglia, infatti, richiede la prova di una condotta abituale, un sistema di violenze fisiche o psicologiche reiterate nel tempo. Il giudice Gallo, analizzando le prove, ha ritenuto che in quel caso specifico non ci fosse la prova di questa «abitualità». Ha sì definito le frasi come «umanamente comprensibili», ma solo per sottolineare che, nel contesto di una relazione in crisi, le liti verbali non sempre configurano il reato di maltrattamenti. Non ha detto che è giusto urlare «puttana» o «ti ammazzo», ma che la legge, per i maltrattamenti, chiede di più. Non lui: la legge.
Contrariamente a quanto affermato dalla parte civile – si legge nella sentenza – «è palese che non vi furono atti di violenza fisica (a parte l’episodio del 28.7.2022, beninteso) e che, soltanto in una occasione, nel corso di una discussione, l’imputato forse allontanò da sé il viso della moglie spingendolo con una mano: episodio evidentemente irrilevante ai fini del reato abituale di maltrattamenti».
Ancora, nel corso delle indagini preliminari, era stato descritto dalla donna un episodio in cui il figlio aveva reagito con rabbia dopo aver perso alla PlayStation e il padre lo aveva immobilizzato, tenendolo per il petto e invitato a calmarsi perché era «solo un videogioco». Ma nel dibattimento, spiega la sentenza, l’episodio era stato «trasfigurato» dalla donna stessa «in un tentativo di strozzamento». Per i giudici, questo cambio della narrazione dimostrerebbe un’alterazione dei fatti e minerebbe la credibilità della testimone, mentre altri testimoni, tra cui il nuovo compagno di lei, escludono gesti di violenza dell’ex marito.
E il pestaggio? Il «volto tumefatto»? Su questo non c’è stata giustificazione o comprensione, ma una condanna a diciotto mesi per lesioni personali, cosa ben diversa dall’assoluzione. Il giudice non ha detto che il marito andava compreso, ma che il gesto era «uno sfogo riconducibile alla logica delle relazioni umane» in un momento di «dissoluzione della comunità domestica». Che è un modo, forse un po’ burocratico, per dire che la violenza non nasce dal nulla, ma è il frutto tossico di una dinamica relazionale malata. Ma questo non significa giustificarla, né trasformare il carnefice in vittima.
Il punto è proprio questo: il modo in cui la vicenda è stata raccontata, i talk show indignati del pomeriggio in tv, la petizione contro il giudice Gallo e la sua sentenza non chiedono giustizia, ma una vendetta simbolica, una ritorsione contro la legge. Oggi c’è chi chiede la rimozione di un magistrato che ha applicato il diritto, in un Paese dove la legge, sempre più spesso, viene percepita come un fastidioso ostacolo alla «giustizia» che la gente vuole. Una giustizia «compassionevole», per l’appunto, che non è quella dei codici, ma quella dell’opinione pubblica, che si accende e si spegne a seconda delle notizie del giorno. È la pretesa di un’emotività che si sostituisce al diritto. Come se fosse possibile affrontare un tema terribile come quello della violenza sulle donne con una semplice petizione online.
La violenza non si giustifica, ma i fatti vanno giudicati, e vanno giudicati con la legge. Forse il vero problema è che la legge è diventata un’entità opaca e incomprensibile. Perché è più facile indignarsi che capire. E in questa Italia del «tutto a pezzettini», anche la giustizia è diventata un frammento da lanciare contro il nemico di turno, senza sapere che magari quel nemico stava solo cercando di fare il suo mestiere.
Questa piccola vicenda, inoltre, racconta bene di come l’informazione, quando parla di sentenze e di tribunali, oggi non informa più, ma aizza. Non spiega, ma polarizza. Non è un caso che un’assoluzione (seppur parziale) venga presentata come un’ingiustizia, e che il verdetto di un tribunale collegiale diventi, magicamente, la decisione di un solo giudice, per di più «uomo». È un attacco preciso, personalizzato, che non cerca la verità ma un colpevole da dare in pasto alla folla. E l’obiettivo, purtroppo, è trasparente: mettere a tacere tutti quei giudici che potrebbero osare discostarsi dal sentire comune, da quel populismo giudiziario che vuole la condanna prima ancora del processo.
La verità, come spesso accade, è molto meno emozionante e molto più complessa. E in questa complessità si annida il vero pericolo per lo Stato di diritto. Perché se un giudice non è più libero di applicare la legge, ma deve temere la gogna social per ogni sua decisione, allora la giustizia non esiste più. Non ci sono più i tribunali, ma le piazze. Non possiamo permetterci di cedere a questa logica. Un giudice deve essere libero e indipendente. Chiunque, per qualche click in più o per una manciata di voti, attacca questa libertà, sta attaccando le fondamenta stesse della nostra convivenza civile.
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