Avocado in Sicilia, quando l’opportunità di alcuni diventa il rischio di molti
In Sicilia sono tutti pazzi per le colture esotiche. I frutti tropicali sono passati dall’essere considerati meri esperimenti per agricoltori futuristici, a vere e proprie opportunità di business, che attirano sempre di più l’attenzione (e i capitali) di grandi investitori. Proprio di recente, il colosso svizzero-americano Chiquita ha annunciato di aver avviato la produzione di 20.000 piante di banane a Marina di Ragusa, sono partite le prime coltivazioni di caffè e quelle di avocado, spinte da una domanda crescente, stanno procedendo a ritmi più che spediti, raggiungendo circa 1000 ettari in tutta l’isola. In molti descrivono questo spostamento da colture tradizionali a colture esotiche, come la via per adattarsi ad un clima che cambia. Una spiegazione affascinante e romantica, ma certamente non l’unica. Come emerso da un’inchiesta de il Post, oggi un ettaro di avocado rende il doppio di un ettaro di limoni. E quando si devono far quadrare i conti in un settore notoriamente non profittevole, questo ha un impatto sulle scelte degli imprenditori. Non si può quindi non prendere in considerazione l’ipotesi che, dietro ad una trasformazione agricola che sta assumendo dimensioni sempre più rilevanti, ci sia innanzitutto una forte rincorsa alla massimizzazione dei profitti.
La febbre dell’avocado È interessante a questo proposito il caso di Halaesa, un’azienda siciliana, capitanata Francesco Mastrandrea, esperto di agribusiness con tanto di titoli collezionati nelle migliori università italiane, che dichiara di aver raccolto 9 milioni di euro di investimenti, tra istituti finanziari e fondi di investimento, per la coltivazione di 500 ettari di avocado e che prevede di arrivare a 1000 ettari in dieci anni. Il modello di Halaesa è una novità e ha attirato l’attenzione di tanti proprio perché non è un’azienda agricola tradizionale. Mastrandrea, infatti, applica al settore agricolo modelli tipici delle startup (massiccia raccolta di capitali, team multifunzionali con profili altamente specializzati, coinvolgimento di grandi investitori, scalabilità dei processi) volendo dimostrare -come dichiarato in alcune interviste- che, con una visione chiara e un progetto ben fatto, anche l’agricoltura può essere un business dai grandi guadagni. E non ci sarebbe nulla di male se questa transizione fosse in qualche modo governata. Ma così non è. E in un momento storico in cui siamo travolti dalla febbre dell’avocado, è doveroso chiedersi quale sia il costo di questa incontrollata trasformazione dell’agricoltura siciliana. Per rispondere a questa domanda, occorre fare un salto oltreoceano, laddove l’avocado è nato.
I tanti problemi dell’avocado Fino a 20 anni fa, l’avocado si trovava solo nei paesi del centro e sud America. Ad un certo punto però, un cambio delle politiche di esportazione dal Messico agli Stati Uniti ne ha incrementato la commercializzazione nei paesi occidentali. La sua produzione globale è aumentata di oltre il 220% in due decenni. In Messico, il mercato dell’avocado ha assunto una portata per quell’economia non indifferente e l’aumento delle esportazioni massive, ha provocato degli effetti disastrosi sulle comunità e sull’ambiente. L’introduzione di monocolture intensive per far fronte ad una crescente domanda globale, ha causato gravissimi danni di deforestazione e perdita di biodiversità. Si è assistito alla progressiva sottrazione di terreni destinati ad altre colture meno redditizie ma più utili alla popolazione locale, come il mais. Inoltre, si sono imposti grandi proprietari terrieri che, forti del loro potere economico, si sono progressivamente accaparrati le terre dei piccoli agricoltori. Infine, i terreni messicani sono stati sottoposti ad un fortissimo stress idrico, causato dall’elevata quantità di acqua richiesta dall’avocado. L’aumento della produzione, interamente destinata a paesi con un potere d’acquisto decisamente superiore a quello dei messicani, non ha determinato una riduzione dei prezzi dell’avocado, anzi. Da frutto tradizionale ed economicamente accessibile, è diventato un prodotto molto costoso anche in Messico. È accaduto ciò che viene definito gentrificazione del cibo: analogamente a quello che avviene nell’edilizia, l’imperativo non è più rispondere alle esigenze di una certa popolazione locale, ma estrarre il massimo valore economico da un certo prodotto. Tutto questo ha avuto un effetto negativo anche sugli stessi agricoltori che, proprio a causa dell’aumento della produzione, hanno visto ridursi sempre di più i propri margini di guadagno, perché -come al solito- chi sta all’inizio della filiera è vittima del fatto che non ha un accesso diretto al mercato e quindi non può determinarne i prezzi.
L’agricoltore e la sua attività di presidio Questa forsennata ricerca del prodotto miracoloso che viene pagato a peso d’oro (abbiamo in passato assistito al business delle lumache, delle bacche di goji, dei melograni, ecc.) unita al culto a tratti ossessivo per le startup americane, forse ci sta facendo dimenticare che l’agricoltura spesso non è redditizia non per miopia dell’imprenditoria agricola, ma perché è intrinsecamente diversa dall’industria. Poco profittevole, difficile da scalare e da prevedere, non sempre standardizzabile, strettamente connessa alle specificità di un territorio e della comunità che lo abita, l’agricoltura è ancora oggi un settore che, per sopravvivere, ha bisogno di un supporto economico collettivo. Non è un caso che a lungo ha rappresentato una fetta rilevante del budget dell’Unione europea. A maggior ragione in un territorio come quello siciliano, con il 70% del suolo ad alto rischio desertificazione e con una delle reti di distribuzione idriche più disastrose d’Italia, “l’affare avocado” non pare sia molto coerente con l’idea di sostenibilità e adattamento climatico che tanto si racconta su questo frutto. Investire in una coltura che promette di essere profittevole ed installare un’imponente coltura intensiva che andrà a gravare pesantemente sulle risorse della comunità (suolo, ma soprattutto acqua), è una visione quantomeno miope. Vuol dire non solo non tenere conto del fatto che l’agricoltura è strettamente connessa alla comunità che la ospita, ma anche ignorare che l’obiettivo di un agricoltore non è solo quello del profitto (anzi, nella maggior parte dei casi il profitto non è la ragione per cui si decide di fare agricoltura) ma quello di presidio. È proprio l’Unione Europea che affida agli agricoltori un ruolo chiave non solo nel garantire la sicurezza alimentare, ma nel contribuire alla tutela ambientale e alla biodiversità, oltre che nel supportare le comunità rurali. E questo non perché l’UE abbia un’idea romantica dell’agricoltura, ma perché si tratta di attività fondamentali per scongiurare l’impoverimento dei suoli e lo spopolamento delle aree interne, oltre che per garantire un certo grado di sovranità alimentare. L’importanza di questo ruolo trova poi la sua applicazione pratica nel conferimento di contributi economici proprio agli agricoltori che si impegnano in tal senso. Oggi, più che mai la scelta di cosa coltivare, soprattutto in aree a rischio, non può e non deve dipendere da un’unica variabile, ovvero quella economica di breve termine, anche se abbellita da uno storytelling green. In un mondo sempre più complesso, le scelte per chi coltiva devono essere il frutto di valutazioni che prendono in considerazione la sostenibilità economica, ma anche quella ambientale e sociale di medio e lungo periodo. Non dotarsi di un serio piano di transizione agricola a livello regionale, vuol dire lasciare che sia il mercato e solo il mercato a decidere su cosa investire, in uno dei settori più importanti per la vita delle persone e dei luoghi. E in una terra che continua a generare figli destinati all’emigrazione, possiamo davvero permetterci di correre questo rischio?
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