Marsala, l’ombra del capo: così Raia teneva in mano il narcotraffico dei tre gruppi
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L’ultima inchiesta della Direzione distrettuale antimafia sul narcotraffico a Marsala ha un tratto che la distingue da molte operazioni degli ultimi anni: racconta un sistema che non è soltanto una rete di spaccio, ma il braccio economico di una famiglia mafiosa ancora viva e operativa. Al centro di questo sistema, secondo la ricostruzione di Procura e Gip, c’è un nome: RAIA Francesco Giuseppe, classe 1967, indicato come reggente della famiglia mafiosa di Marsala.
Non è un dettaglio di contesto. Nelle pagine centrali dell’ordinanza cautelare i magistrati spiegano che le tre articolazioni associative ricostruite dagli investigatori non sono corpi autonomi, ma agiscono “sotto il controllo della famiglia mafiosa di Marsala” e, in una logica di subordinazione, fanno capo proprio a Raia.
In altri termini: il grande affare della cocaina nel territorio non è una galassia di bande slegate, ma un unico sistema industriale, con tre reparti operativi e un’unica cabina di regia.
Il reggente e la “rendita” sulla cocaina
La figura di Raia si colloca un gradino sopra i protagonisti che abbiamo imparato a conoscere in questi giorni: i Donato, gli Sparla, i Dardo e i Rallo. A loro viene attribuita la gestione delle piazze di spaccio, l’organizzazione delle “squadre” di pusher, il contatto con i fornitori calabresi, la logistica dei viaggi e dei nascondigli. A Raia, invece, viene attribuita una funzione diversa: quella del capo famiglia che controlla, garantisce e soprattutto preleva la sua quota sugli affari.
L’ordinanza descrive un contesto in cui il reggente mafioso viene mantenuto costantemente informato sull’andamento del traffico di stupefacenti. I vertici dei tre gruppi lo aggiornano sui quantitativi, sui ritmi delle vendite, sugli equilibri tra le piazze. Questo non avviene in via occasionale, ma – sottolineano gli inquirenti – con una sistematicità tale da rendere evidente che le tre associazioni operano “all’interno della sfera di influenza della famiglia di Cosa Nostra marsalese”, con il reggente come referente ultimo.
Da questo ruolo di supervisione discende un altro elemento centrale: la percentuale. La cocaina venduta nelle strade di Marsala non produceva solo il guadagno dei trafficanti, ma generava una rendita stabile destinata a Raia e, attraverso lui, alla famiglia mafiosa. È la logica della “tassa mafiosa” applicata al narcotraffico: chi gestisce una piazza paga il pizzo non sul bar o sull’impresa, ma sui chilogrammi di droga movimentati.
Secondo la prospettazione accusatoria, proprio questo meccanismo fa sì che il traffico di cocaina diventi “fonte primaria di sostentamento” dell’associazione mafiosa marsalese. La droga non è più solo uno dei tanti affari su cui Cosa Nostra mette le mani, ma il principale canale di finanziamento, un flusso di denaro costante su cui costruire stipendi, mantenimento dei detenuti, disponibilità di armi, capacità di corruzione e relazioni.
È su questo punto che si innesta l’aggravante di aver agito per agevolare l’associazione mafiosa: i gruppi non sono soltanto associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti, ma sono – per come le descrive il giudice – emanazioni economiche della famiglia di Cosa Nostra, che ne assorbe una parte rilevante dei profitti.
Tre gruppi, un unico vertice
Per comprendere il ruolo di Raia, occorre guardare alla struttura complessiva delineata dagli inquirenti. La mappa che emerge è quella di tre associazioni distinte, ognuna con la propria storia, i propri uomini di fiducia, i propri canali di approvvigionamento e distribuzione.
Il gruppo riconducibile a Salvatore Donato presidia alcune piazze e cura approvvigionamenti e cessioni a Marsala, Mazara e Petrosino. Il gruppo di Gioacchino e Vincenzo Sparla utilizza, tra l’altro, la pescheria di via degli Atleti come base operativa e luogo d’incontro. Il terzo sodalizio, da noi già raccontato in un altro approfondimento, fa capo a Francesco Dardo e Maurizio Rallo, ed è quello che si distingue per il canale diretto con la Locride per l’acquisto di importanti quantitativi di cocaina.
Queste tre realtà, tuttavia, non vivono in concorrenza anarchica. Nella lettura del Gip, funzionano come articolazioni territoriali di un’unica “impresa”, con Raia nel ruolo di garante mafioso. È il reggente a vigilare che non si aprano guerre tra gruppi, che non si creino squilibri pericolosi, che non si facciano affari senza autorizzazione o a condizioni tali da mettere a rischio i rapporti con i fornitori e con la famiglia mafiosa.
Non c’è bisogno che il capo intervenga quotidianamente nelle singole operazioni: è sufficiente che tutti sappiano che il traffico si svolge sotto la sua “licenza”. Quando le cose si complicano – una partita che non arriva, un debito che non si salda, una frizione tra sodali – è lì che la figura del reggente torna centrale, come riferimento chiamato a decidere, comporre, talvolta minacciare.
Dalla teoria ai luoghi: la pescheria di via degli Atleti
Se questo è il quadro generale, l’indagine offre anche riscontri più concreti sul modo in cui Raia si muoveva dentro il sistema del narcotraffico. Uno dei luoghi-chiave è la pescheria di via degli Atleti, formalmente un esercizio commerciale, di fatto – sempre secondo l’accusa – una sorta di hub del traffico di cocaina.
La pescheria è intestata a SPARLA Vincenzo, che pure risulta sottoposto agli arresti domiciliari. Nonostante ciò, i servizi di osservazione della Squadra Mobile documentano una continua andata e venuta di soggetti legati al traffico, incontri ripetuti tra i capi delle piazze di spaccio e soprattutto la presenza, in più occasioni, di RAIA Francesco Giuseppe.
È qui che la dimensione astratta del “controllo mafioso” si traduce in una geografia concreta: un negozio di pesce che diventa punto di raccordo tra economia legale e illegalità, tra il capo e i suoi referenti, tra l’organizzazione tradizionale e i circuiti moderni del narcotraffico.
La scelta del luogo non è casuale. Un esercizio commerciale aperto al pubblico offre copertura, possibilità di giustificare presenze e movimenti, una cornice apparentemente innocua dietro la quale nascondere riunioni, consegne, scambi di informazioni. La pescheria, in questa storia, è molto più di una scenografia: è il palcoscenico materiale del potere mafioso, il posto dove l’“ombra” di Raia smette di essere solo un nome nelle intercettazioni e diventa persona fisica che incontra, ascolta, controlla.
Un modello di mafia “a partecipazioni”
Le pagine dell’ordinanza che descrivono questo assetto restituiscono l’immagine di una Cosa Nostra che ha imparato a funzionare come una holding, con partecipazioni negli affari più redditizi e controllo sugli utili, più che gestione diretta delle singole attività.
La cocaina, in questa logica, è un investimento a basso rischio per il vertice mafioso: sono altri a occuparsi del lavoro sporco – i contatti con i fornitori, i corrieri, le vedette, le piazze di spaccio – mentre la famiglia si limita a garantire protezione e “ordine” in cambio di una quota certa dei proventi.
Il risultato è duplice. Da un lato, la mafia riesce a mantenere capacità economica e potere di intimidazione senza esporsi in prima persona nelle attività più esposte. Dall’altro, i gruppi di trafficanti, per poter operare, accettano di collocarsi in questa cornice di subordinazione, partecipando così – questa la contestazione – non solo a un’associazione finalizzata al traffico di droga, ma alla stessa strategia di finanziamento della famiglia di Cosa Nostra.
L’operazione dei magistrati palermitani dice che a Marsala:
- - la famiglia mafiosa esiste, ha un reggente riconosciuto, mantiene un controllo sul territorio;
- - la cocaina non è solo devianza giovanile o microcriminalità, ma il motore di un sistema di potere;
- - l’economia illegale del narcotraffico è intrecciata con luoghi, attività e persone che, in superficie, appaiono “normali”.
In questo quadro, RAIA Francesco Giuseppe incarna la figura del capo che non ha bisogno di gestire una piazza o di farsi vedere per le strade per essere al centro di tutto.
Gli basta essere il destinatario di quella percentuale, il garante di quell’ordine mafioso, l’uomo a cui tutti – vecchi e nuovi gruppi – riconoscono il ruolo di reggente.
È questa, al netto delle responsabilità che dovranno essere accertate in dibattimento, la novità più forte emersa dall’inchiesta: non soltanto tre associazioni dedite alla droga, ma un unico sistema che si regge su una figura apicale, un “amministratore delegato” della famiglia che ha scelto la cocaina come principale strumento di finanziamento del potere mafioso a Marsala.
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