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28/11/2025 06:00:00

Marsala, la ritorsione che diventò incendio: l'attacco al "Frency Caffè"

Il 13 gennaio 2022, alle prime luci dell’alba, le fiamme avvolsero la veranda del “Frency Caffè”, un bar di contrada San Giuseppe Tafalia, a Marsala. Per molti fu un episodio isolato, uno dei tanti danneggiamenti notturni che circolano nelle cronache locali. 

 

Per la Direzione distrettuale antimafia, invece, quell’incendio non fu l’esito di un gesto impulsivo, ma il tassello di una dinamica mafiosa in piena regola: un atto di ritorsione pianificato, organizzato, eseguito per punire una persona ritenuta “inadempiente”.

L’ordinanza del Tribunale di Palermo, nel capo 27, ricostruisce in modo minuzioso la vicenda: motivazioni, ruoli, minacce, spostamenti, mezzi utilizzati e persino reazioni a caldo dei protagonisti. La ricostruzione restituisce il ritratto di un contesto dove il fuoco è strumento di pressione, segnale di dominio, metodo di controllo.

 

 

 

L’origine dello scontro: un lavoro negato

Secondo il giudice, la mente dell’incendio fu Sparla Vincenzo, classe 1983. Era agli arresti domiciliari e aveva bisogno di un contratto di lavoro per poter ottenere permessi e rendere meno rigida la misura restrittiva. Una soluzione già sperimentata in passato, quando aveva lavorato nella propria pescheria.

Giacomo Orto, titolare del bar e marito della proprietaria formale del locale, rifiutò di assumerlo. Una scelta che fece esplodere lo scontro: per gli inquirenti, quel diniego diventò immediatamente un affronto da punire.

La ritorsione, scrive l’ordinanza, fu organizzata da Sparla “per rovinare definitivamente Orto”. Non solo per il mancato lavoro, ma anche per i contrasti fra i due in un processo in cui erano coimputati.

La squadra dell’incendio: pressioni, minacce e ruoli

Attorno a Sparla Vincenzo si muove un gruppo coeso.

  • Sparla Gaspare (classe 1969): partecipa all’organizzazione, effettua sopralluoghi insieme a un altro uomo del gruppo, Giacalone Riccardo.
  • Renda Giuseppe (1987): altro organizzatore, coinvolto nella definizione dell’azione.
  • Sparla Gaspare (classe 1955): figura decisiva nel fare pressione su Giacalone. Arriva a minacciarlo di morte se non esegue l’incendio.

L’esecutore materiale è Giacalone Riccardo (1997), insieme a un complice rimasto non identificato. Il movente, per lui, è duplice: un compenso di 500 euro e la necessità di “coprire” un debito di droga nei confronti del gruppo che lo coartava a collaborare.

 

Sopralluogo, carburante e un bar da “fare diventare cenere”

La preparazione appare meticolosa. Prima dell’attacco, viene eseguito un sopralluogo. La dinamica dell’incendio racconta di un’azione pensata per produrre un effetto distruttivo: diverse parti della veranda vengono cosparse con liquido infiammabile, utilizzando contenitori di plastica successivamente ritrovati bruciati nelle vicinanze.

Le fiamme distruggono la tettoia esterna e varie suppellettili, anneriscono le pareti, e – come scrivono gli investigatori – rischiano di coinvolgere “l’intero stabile sovrastante”. La struttura interna del bar viene salvata solo grazie al rapido intervento dei Vigili del Fuoco.

Sul luogo viene rinvenuto il residuo di un bidone bianco distrutto dal calore. Un secondo bidone, blu scuro e ancora odorante di liquido infiammabile, viene trovato poco dopo nel quartiere popolare di Amabilina.

Gli investigatori ricostruiscono anche gli spostamenti dell’esecutore: una relazione di servizio della Polizia documenta il passaggio di Giacalone a bordo di una Mercedes Classe A nei pressi di via Salemi, diretto proprio verso Amabilina, poche ore dopo il rogo.

L’automobile, il garage e la Vespa: i luoghi dell’esecutore

Nel luglio 2022, durante un’ampia operazione di polizia, gli agenti trovano in un box/garage del lotto 3/A di contrada Amabilina una Piaggio Vespa GTS 250 intestata a un soggetto pregiudicato per droga. Il garage è nella disponibilità dell’ex compagna di Giacalone, che racconta agli agenti che quel box e quel mezzo erano utilizzati esclusivamente da lui.

È un ulteriore tassello che colloca l’esecutore nel contesto operativo dell’attentato.

 

La conversazione intercettata: “Se l’è vista brutta”

L’ordinanza riporta una lunga conversazione, intercettata alle 10:08 del mattino stesso dell’incendio, tramite un trojan inoculato nello smartphone di Sparla Vincenzo. La scena è illuminante: i protagonisti commentano l’azione, parlano della paura dell’esecutore, e soprattutto mostrano l’atmosfera di violenza che sosteneva l’intero piano.

Sparla V.: “Se l’è vista brutta, ah?”
Sparla G.: “A chi?”
Sparla V.: “A Riccardo!”

Nella stessa conversazione, Sparla Vincenzo confida di essere stato pronto ad aggredire Giacalone, che temeva la sua reazione:

“Io avevo già preso il cosa di ferro… appena lui viene gliene do tante sulla testa fino a quando non lo spacco tutto!”.

Il padre conferma di essersi recato a casa dell’esecutore dopo il rogo. È la compagna di Giacalone ad affacciarsi e rassicurarlo. Poco dopo, Giacalone manda un messaggio al mandante.

Le intercettazioni, insieme alle immagini di videosorveglianza, permettono agli investigatori di ricostruire tutte le fasi dell’azione: ideazione, sopralluogo, esecuzione, fuga, commenti successivi.

 

Perché è incendio e non semplice danneggiamento

Il giudice dedica un’ampia parte dell’ordinanza alla qualificazione giuridica del fatto. Le modalità utilizzate, la scelta dei materiali, il rischio concreto per la pubblica incolumità e la volontà di “far diventare cenere” il locale portano a qualificare l’episodio come delitto di incendio ai sensi dell’art. 423 c.p.

Il dolo, spiegano i magistrati, non è quello limitato a un semplice danneggiamento: l’intenzione era distruggere il locale e accettare il rischio concreto che le fiamme si propagassero.

 

Un messaggio di fuoco

L’incendio al “Frency Caffè” emerge così come uno degli episodi-chiave dell’inchiesta. È la dimostrazione plastica – letteralmente – della capacità di intimidazione del gruppo, del loro modo di ottenere obbedienza, del controllo informale che esercitavano sul territorio attraverso minacce, debiti di droga, violenza disciplinare.

Un bar dato alle fiamme non perché “utile” a un business, ma perché necessario a ribadire un principio: chi si sottrae alle richieste, chi non esegue, chi non fa favori, viene punito.

 

La DDA considera questo episodio una prova della struttura sociale e operativa del gruppo: una catena gerarchica, mandanti, complici, esecutori, mezzi, ritorsioni incrociate. Un modello criminale che agiva in un territorio in cui lo spaccio di stupefacenti e la gestione dei debiti erano strumenti di controllo, alimentati da una rete che gli inquirenti collegano alla famiglia mafiosa marsalese.