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23/12/2025 14:57:00

Mafia, 30 anni fa l'omicidio di Giuseppe Montalto

Trent’anni fa, la sera dell’antivigilia di Natale del 1995, Cosa nostra trapanese uccideva Giuseppe “Pino” Montalto, agente scelto della Polizia penitenziaria. Aveva 30 anni, una figlia di dieci mesi e la moglie incinta del secondo figlio, che sarebbe nata dopo. Lo ammazzarono davanti a casa, nella frazione di Palma, allora nel territorio di Trapani, oggi Comune di Misiliscemi. Colpi di lupara, sparati a pochi passi dall’auto su cui c’erano la moglie e la bambina. Un’esecuzione fredda, simbolica, pensata come un messaggio allo Stato.

Un omicidio che segna uno spartiacque nella storia criminale della provincia e che, a distanza di trent’anni, continua a lasciare domande senza risposta.

 

Il “regalo di Natale” ai boss del 41 bis

 

Giuseppe Montalto lavorava nel sistema penitenziario di massima sicurezza. Aveva prestato servizio all’Ucciardone di Palermo, nel braccio del 41 bis, dove in quegli anni erano detenuti alcuni tra i più pericolosi boss mafiosi: Pippo Calò, Nino Madonia, i fratelli Graviano, Mariano Agate.

Secondo le ricostruzioni giudiziarie e i racconti dei collaboratori di giustizia, Montalto era finito nel mirino non per un fatto personale, ma per ciò che rappresentava: lo Stato che fa il proprio dovere. Aveva intercettato e bloccato uno scambio di pizzini tra detenuti mafiosi. Tanto bastò per inserirlo nell’elenco delle “spine” da eliminare.

L’ordine arrivò da Palermo, fu raccolto a Trapani. L’omicidio doveva essere un “regalo di Natale” ai boss detenuti al 41 bis: dimostrare che Cosa nostra, anche dietro le sbarre, continuava a comandare.

 

Mandanti ed esecutori: le condanne

 

Per quell’omicidio sono arrivati ergastoli pesanti, che certificano la responsabilità di una Cosa nostra unitaria, capace di saldare interessi tra Trapani, Palermo e Castelvetrano.

  • Vito Mazzara, capo della famiglia mafiosa di Valderice, killer professionista e tiratore scelto, è stato condannato all’ergastolo come esecutore materiale.
  • Matteo Messina Denaro, allora latitante e già figura emergente, è stato condannato all’ergastolo come mandante.
  • Vincenzo Virga, capo di Cosa nostra trapanese, ergastolo.
  • Nicolò Di Trapani, boss palermitano di Resuttana, ergastolo.

Fondamentale il contributo del collaboratore di giustizia Francesco Milazzo, che ha ricostruito il contesto mafioso e la decisione di colpire Montalto. Resta però un secondo killer, indicato nelle indagini ma mai definitivamente individuato e condannato.

 

Le zone d’ombra: chi aiutò i killer

 

A trent’anni di distanza, il processo ha detto molto, ma non tutto. Uno dei nodi più inquietanti riguarda le coperture esterne. Per arrivare a Montalto, i killer dovettero risalire alla sua identità, alla residenza, alla targa dell’auto. Secondo alcune ricostruzioni, qualcuno consultò abusivamente banche dati pubbliche, come quelle della Motorizzazione, fornendo informazioni decisive al commando.

Un pezzo di verità che non è mai emerso fino in fondo. Così come resta aperta la riflessione sul clima di quegli anni: una provincia dove la mafia poteva contare su silenzio, complicità, zone grigie.

 

L’ultimo omicidio eccellente a Trapani

 

Quello di Giuseppe Montalto è stato l’ultimo omicidio eccellente nella Trapani mafiosa degli anni Novanta. Un delitto che arriva dopo le stragi, ma dentro la stessa logica: colpire lo Stato, intimidire chi applica le regole, soprattutto il 41 bis, ancora oggi al centro di tensioni e attacchi.

Nel 1997, al giovane agente è stata conferita la Medaglia d’oro al Merito Civile, per l’alto senso del dovere dimostrato fino all’estremo sacrificio. I funerali furono di Stato, con una partecipazione popolare enorme. Ma col tempo, come spesso accade, la memoria pubblica si è assottigliata.

 

“Giuseppe non voleva essere un eroe”

 

A ricordarlo, oggi, è soprattutto la voce della moglie Liliana Riccobene, che non ha mai smesso di chiedere verità piena, non “mezze verità”.

 

Il trentennale dell’omicidio Montalto non è solo una commemorazione. È una cartina di tornasole per capire quanto questa terra sia davvero disposta a fare i conti con la propria storia. Perché ricordare, come dice Liliana, significa non far morire una seconda volta chi è stato ucciso. E perché senza verità completa, la giustizia resta incompiuta.