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27/12/2025 06:00:00

La Sicilia senza conflitto: quando la tv anestetizza e la politica minaccia il racconto

Non è cattiva, Sicilia Express, l’ultima fatica di Ficarra e Picone su Netflix. È semplicemente buona. Troppo buona. Di quella bontà che, sullo schermo, sa di frutta martorana e di anestesia. Una Sicilia addobbata a festa, illuminata dal Natale e da una retorica del “siamo tutti bravi e buoni”, dove persino il lavoro che manca o il caro voli si trasformano in occasione di poesia. Tutto è lieve, tutto è accogliente, tutto è risolto dal sorriso. Ma sotto la superficie scintillante resta un vuoto narrativo: un’isola senza mordente, pacificata, disinnescata.

 

Sicilia Express è il sintomo, più che il problema. Racconta bene una tendenza culturale che da anni attraversa la televisione e le piattaforme: la progressiva scomparsa del conflitto dal racconto della Sicilia. Un velo di buonismo, di carezze e rassicurazioni, sembra aver coperto ogni rappresentazione dell’isola. La regola non scritta è semplice: non disturbare il manovratore. Non turbare lo spettatore, non incrinare l’immagine, non aprire ferite. La Sicilia va mostrata, non interrogata.

 

E così, mentre la cronaca continua a restituire un’isola complessa e contraddittoria — fatta di inchieste sulla sanità, di corruzione negli appalti pubblici, di violenza urbana in crescita, di giovani che partono, di disservizi strutturali come la crisi idrica — la fiction preferisce la cartolina. Meglio l’eccezione poetica che la regola sistemica, meglio il disagio raccontato come folklore che come prodotto di responsabilità precise.

 

 

 

In Sicilia Express Ficarra e Picone interpretano due infermieri siciliani emigrati a Milano che scoprono un cassonetto della spazzatura capace di collegare magicamente Nord e Sud in pochi secondi. Da qui parte una commedia degli equivoci costruita su toni leggeri, sul contrasto bonario tra Milano e Palermo, sull’idea che il Natale, alla fine, rimetta a posto le cose. Non c’è rabbia, non c’è conflitto reale, non c’è mai il momento in cui qualcosa viene davvero messo in discussione. Tutto scorre, tutto si risolve, tutto si assorbe.

 

L’isola è uno sfondo perfetto: il barocco, i paesaggi, le stazioni ferroviarie diventano un mosaico visivo caloroso e instagrammabile. La satira sociale c’è, ma è addomesticata. Si ride dei voli cari, dell’acqua che manca, della burocrazia lenta. Mai delle responsabilità, dei poteri, dei meccanismi che producono quei disastri. Il problema esiste, ma è neutro, senza colpevoli. È destino, non politica.

 

Il modello più influente resta Il commissario Montalbano. Nella versione televisiva, il personaggio diventa soprattutto una macchina di rassicurazione: i casi si chiudono, la giustizia — almeno quella morale — trionfa, e la Sicilia, pur attraversata dal crimine, resta fondamentalmente buona, accogliente, riconciliata. Camilleri aveva costruito i suoi romanzi sulla grande metafora sciasciana del “giallo senza soluzione”, dove la verità si intravede ma non si afferra mai del tutto, e il potere resta opaco. Sul piccolo schermo, quel labirinto si trasforma in un set turistico globale. Il delitto si risolve, il paesaggio consola. La serie ha avuto un merito enorme nel promuovere l’isola, ma ha progressivamente ridotto la complessità sociale e politica a un fondale estetico.

 

La stessa sorte è toccata a Màkari, su Rai Uno. Nata dalla penna di Gaetano Savatteri, è diventata col tempo una commedia anestetizzata, dove i misteri sono spesso un pretesto e le trame ruotano sempre più attorno a relazioni sentimentali, crisi personali, triangoli emotivi. Anche qui la Sicilia occidentale — San Vito Lo Capo, il Trapanese — è splendida, luminosa, addomesticata. Più comfort zone che campo di battaglia civile.

 

Il contrasto con la memoria storica è netto. Negli anni Ottanta la televisione generalista mandava in prima serata La Piovra: una fiction che non faceva sconti a nessuno. Omicidi, stragi, collusioni tra mafia, politica e finanza. Finali tragici, eroi che muoiono, uno sguardo che disturbava. Era un racconto popolare e insieme radicale, che contribuì a far conoscere la mafia a un Paese che spesso preferiva non vedere. Oggi una serie così difficilmente troverebbe spazio in prima serata, forse nemmeno sulle piattaforme.

 

Anche il giornalismo televisivo di denuncia popolare si è rarefatto. Per anni Sabrina Petyx, con il suo bassotto, ha portato su Striscia la Notizia inchieste semplici ma efficaci su abusi, mala gestione e malaffare in Sicilia. Era giornalismo pop, ma faceva nomi, mostrava luoghi, inchiodava responsabilità. Oggi quello spazio si è ristretto fino quasi a scomparire, sostituito da format di puro intrattenimento e da una televisione che vuole essere solo compagnia. Gerry Scotti, con la Ruota della Fortuna presentata come “prodotto culturale”, è il simbolo perfetto di questa fase. Non pensavamo di doverlo ammettere, ma sì: ci manca Striscia la Notizia. È stata sacrificata sull’altare di una pax televisiva e politica che ha anestetizzato anche la satira. E non ce ne siamo accorti.

 

Nemmeno le piattaforme streaming sfuggono a questa logica. Anzi, spesso la raffinano. L’adattamento Netflix de Il Gattopardo è un esempio lampante di superficialità rispetto al romanzo di Tomasi di Lampedusa e al capolavoro di Visconti. Costumi sontuosi, location spettacolari, fotografia patinata. Ma la profondità del gattopardismo — il trasformismo, il compromesso, la tragedia del cambiamento apparente — si dissolve in una narrazione glamour, quasi da “Emily in Paris risorgimentale”. La storia diventa sfondo, non problema. La Sicilia è bellezza, non conflitto. Uno spot turistico più che un’opera di critica.

 

La sublimazione finale è The White Lotus. La seconda stagione è ambientata in Sicilia, ma la Sicilia scompare. Diventa un fondale esotico, una scenografia di lusso per raccontare i conflitti psicologici e morali di turisti ricchi. L’isola è cartapesta: stereotipi, accenti storpiati, folklore svuotato. Non è soggetto, è decorazione.

 

Queste scelte non sono casuali. Riflettono una precisa economia del racconto: prodotti facilmente esportabili, universalmente comprensibili, poco disturbanti. La Sicilia come brand, non come domanda. Un luogo da consumare, non da attraversare. Un’icona da fotografare, saccheggiata anche dall’alta moda, non un territorio che interroga.

 

Il risultato è una regia culturale che depotenzia sistematicamente il conflitto. L’isola diventa Sicilia-icona, non Sicilia-problema. Quella che sta bene in cartolina, non quella che fa attrito. Il paradosso è che, a forza di non disturbare il manovratore, il racconto dell’isola ha smesso di essere racconto. È diventato cornice.

 

La sfida, oggi, per chi fa informazione, cultura e narrazione, è tornare a raccontare una Sicilia che non chieda solo di essere amata, ma anche capita. Una Sicilia che non stia sempre comoda allo spettatore. Una Sicilia che, se necessario, torni a fare paura. Perché senza conflitto non c’è storia. E senza storia resta solo la cartolina.

 

 

C’è un ultimo elemento, molto recente, che si incastra perfettamente in questo quadro e lo rende ancora più inquietante. Perché mentre il racconto televisivo della Sicilia perde conflitto, spessore e capacità di disturbare, la politica sembra muoversi nella direzione opposta solo in apparenza: non per rilanciare narrazioni più complesse e oneste, ma per delimitare, controllare e potenzialmente punire il racconto stesso.

 

Negli ultimi anni — si legge nella relazione introduttiva — si sarebbero moltiplicati «episodi di vera e propria apologia della criminalità organizzata»: dagli inchini davanti alle case dei boss durante le processioni religiose, agli altarini e monumenti dedicati ai mafiosi, fino alle serie televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle organizzazioni criminali. È su questa base che la deputata di Fratelli d’Italia Maria Carolina Varchi ha depositato, lo scorso ottobre, una proposta di legge ora assegnata alla Commissione Giustizia della Camera, la stessa di cui Varchi è capogruppo.

 

Il ddl introduce un nuovo reato che punisce «chiunque pubblicamente esalta fatti, metodi, princìpi o comportamenti propri delle associazioni criminali di tipo mafioso», ma anche chi «ripropone atti o comportamenti con inequivocabile intento apologetico» o «istiga taluno a commettere i medesimi delitti». La pena prevista va dai sei mesi ai tre anni di carcere, con una multa da mille a diecimila euro, che diventano fino a quattro anni e mezzo se l’esaltazione avviene tramite stampa, televisione, Internet o altri mezzi multimediali.

 

È proprio questa formulazione — “riproporre comportamenti con intento apologetico” — ad aver sollevato più di un allarme. Per come è scritta, la norma potrebbe teoricamente coinvolgere anche opere di finzione, comprese le serie televisive. Non a caso, nella relazione introduttiva, Varchi cita esplicitamente le serie tv (senza nominarle), insieme ai testi di alcune canzoni e ai contenuti diffusi sui social, accusati di veicolare «messaggi di esaltazione e di apologia dell’atteggiamento mafioso». Un terreno scivoloso, dove il confine tra racconto, denuncia, rappresentazione e apologia rischia di diventare una linea tracciata dal potere.

 

La polemica non nasce oggi. Solo pochi mesi fa, nell’anniversario della strage di Capaci, Fratelli d’Italia aveva attaccato sui social «chi ha migliorato la propria vita speculando sulla criminalità», con un riferimento esplicito a Gomorra

È un refrain noto: la mafia come tema da rimuovere o sterilizzare, più che da affrontare. Roberto Saviano ha definito questa proposta una «legge Omertà», parlando sul Corriere di «una forma di gravissima censura mascherata da tutela morale», che rischia di impedire di raccontare il male se non «nei linguaggi autorizzati dal potere».

 

Il cortocircuito è evidente. Da un lato una televisione che smussa, addolcisce, depoliticizza, trasformando la Sicilia in una comfort zone narrativa. Dall’altro una politica che, invece di chiedere più complessità e più coraggio, sembra voler restringere ulteriormente lo spazio del racconto, introducendo una minaccia penale ambigua e potenzialmente intimidatoria. Il rischio non è tanto che sceneggiatori e registi finiscano davvero in tribunale, quanto che si rafforzi un clima di autocensura: meglio non spingersi troppo oltre, meglio non disturbare, meglio restare nella cartolina.

 

Così il paradosso si completa. La Sicilia viene privata del conflitto due volte: prima dalla narrazione televisiva che la rende innocua, poi da una cornice normativa che rischia di rendere sospetto chi prova a raccontarne le ombre. L’isola-icona vince definitivamente sull’isola-problema. E il racconto, invece di aprire domande, si riduce a superficie. Proprio mentre la realtà, fuori dallo schermo, continua a chiedere di essere guardata in faccia.