Rimuovere dal muro della Società operaia di mutuo soccorso di Santa Ninfa la lapide che ricorda le 17 vittime originarie del paese morte nel terremoto del Belìce del 1968. È questa la decisione assunta dall’assemblea dei soci, convocata dopo che tre consiglieri di minoranza hanno promosso una raccolta di firme, ottenendo l’adesione di 150 associati. Una scelta che riapre una ferita mai del tutto rimarginata e riporta al centro del dibattito il tema della memoria collettiva di una delle tragedie più profonde della storia italiana del Novecento.
La lapide era stata affissa nel 2024, dopo che il sindaco Carlo Ferreri aveva ottenuto il via libera dal presidente della Società operaia, Carlo Di Prima. Ora l’assemblea dei soci, che si è espressa per il 65% a favore della rimozione, motiva la decisione con ragioni procedurali. A sollevare il caso sono stati tre consiglieri – Vincenzo Accardi, Simone Martino e Vito Giaramita – che hanno promosso l’iniziativa per la rimozione della targa commemorativa.
Il Belìce, una ferita ancora aperta
La valle del Belìce resta segnata in profondità da uno degli eventi più drammatici della storia siciliana. Tra il 14 e il 15 gennaio 1968 un violento terremoto devastò un’ampia area della provincia di Trapani, provocando vittime, migliaia di sfollati e la distruzione quasi totale di interi centri abitati. Santa Ninfa, Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago: nomi che ancora oggi evocano macerie, tende, baraccopoli, ma anche proteste popolari, rivendicazioni di diritti e una ricostruzione lunga e faticosa che, a distanza di oltre cinquant’anni, non può dirsi del tutto conclusa.
Il terremoto del Belìce non fu solo un disastro naturale. Divenne un caso nazionale, simbolo dei ritardi dello Stato, delle promesse mancate e della resilienza di una popolazione che seppe trasformare il dolore in lotta civile. È per questo che il Belìce non è soltanto un luogo geografico, ma una memoria collettiva che appartiene all’intero Paese.
La decisione della Società operaia va oltre il gesto materiale della rimozione di una lapide e assume un valore simbolico forte. Interviene su uno dei pilastri della ricostruzione post-sismica: la memoria. Non si tratta solo di ricordare un evento tragico, ma di come una comunità sceglie di fare i conti con il proprio passato. Tenere viva la memoria richiede responsabilità e rispetto. La rimozione di una lapide rischia di indebolire quel filo che lega le generazioni e custodisce il senso di appartenenza.
Le parole del sindaco
Il sindaco Carlo Ferreri non nasconde il proprio imbarazzo per la decisione assunta dall’assemblea dei soci, una scelta che dice di non condividere. Ha comunque annunciato l’intenzione di ricollocare la targa nella stessa piazza. Sulla vicenda ha parlato senza mezzi termini: «È un insulto alla memoria storica, un gesto vergognoso».
La testimonianza dei familiari
Durissima anche la reazione di Rosalba Fargione, sorella di una delle vittime del sisma. «Quel marmo non è un semplice ornamento – ha detto – ma un simbolo sacro di lutto, resilienza e appartenenza. Negare o contrastare quel ricordo solo perché “non si è stati consultati” significa offendere direttamente ogni famiglia che in quella tragedia del 1968 ha perso un proprio caro».
Una vicenda che riapre una discussione delicata e profonda: chi decide come e dove si custodisce la memoria di una tragedia collettiva. E fino a che punto le regole formali possono prevalere sul rispetto della storia e del dolore condiviso.