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22/04/2020 06:00:00

La peste non conosce eroi. Intervista a Fulvio Abbate

di Marco Marino

Ogni epidemia che ci colpisce segnala i cortocircuiti della nostra memoria. È uno strano paradosso, pensiamoci. Sebbene le pestilenze siano eventi più che ricorrenti nella storia umana, finiamo sempre per dimenticarcele; una volta terminate, scompare del tutto l’istinto che ci spinge a temerle. E nonostante, di volta in volta, siano causa delle medesime conseguenze, per noi ogni peste è una peste nuova.

Si intitola così, La peste nuova (La Nave di Teseo; da oggi in ebook), l’ultimo romanzo di Fulvio Abbate. Che riscrive radicalmente un suo libro di ventiquattr'anni fa, La peste bis, dichiarata parodia alta della Peste di Albert Camus.

Ci ritroviamo subito a girovagare per la città in preda al morbo, attraverso lo sguardo disincantato di un inventore di barzellette, tale Guido Battaglia. D’un tratto Battaglia viene assalito da due avvenenti e smaliziate sorelle che lo implorano di esaudire una loro richiesta, di fare con lui un patto. Per salvare dal male la città, e tutti i suoi abitanti, buoni e cattivi, colpevoli e innocenti, basta che lui s’inventi una delle sue barzellette. Loro sono sicure che funzioni; e se lo farà, se ci riuscirà, si concederanno al suo piacere.

Da questa scena dipende l’interrogativo centrale della storia di Abbate: capire qual è il ruolo, il valore d’uso di uno scrittore, di un intellettuale, in un tempo infetto in cui sono visti come eroi soltanto medici e infermieri. Quando tutto il resto della società è considerato accessorio, inutile.

La peste nuova non è un romanzo sul Coronavirus. Prima o poi, lasciandoci esausti e pieni di dolore, il Coronavirus passerà e noi ricominceremo a dimenticarcene. La peste nuova, però, è un antidoto ai paradossi della memoria. Che ci dà modo di respirare il clima di questa pestilenza che ci affligge e delle altre che verranno.

Ma proviamo a parlarne direttamente con il suo autore.

Comincerei parlando di eroismo. Guido Battaglia è un personaggio eroico?

No, Guido Battaglia è mosso dal proprio egoismo, il proprio egoismo onirico. Insegue queste sue misteriose committenti che gli promettono un infinito di piacere sessuali, e cerca di dare loro un nome. Il carattere civile che era presente nell’opera Camus, ed era presente anche nella Peste bis, viene sostituito da un elemento di disincanto, che esclude sia la speranza sia l’eroismo. Non ci sono eroi in questo mio racconto. Anzi, ce n’è una di eroina, Enza, e la perdiamo comunque.

Prima di arrivare a Enza, mi trattengo ancora sul tema. Il fatto che non ci sia eroismo, significa che non può nemmeno esserci resistenza?

Non può esserci alcuna resistenza. Mentre nella peste di Camus c’è il topo, che noi individuiamo come un concreto vettore del contagio, in questo caso c’è il solo contagio. E c’è poi l’andare a vuoto dei camion del genio militare e delle ambulanze. Da questo punto di vista, nella Peste nuova è tutto molto più metafisico, c’è la continua sensazione che tutti vadano a tentoni.

L'intera vicenda è venata di una forte spinta erotica. E così arriviamo a Enza. Che è una fantasmatica diva del porno, affetta dalla peste, verso cui tutti i cittadini indirizzano le proprie speranze di sopravvivere...

Se vogliamo pensare a delle figure di santi, Enza è una sorta di Santa Maria Goretti. È una santa inerme. In realtà, le figure che incarnano davvero l’eros sono le due sorelle che non hanno nome. Diciamo che il tema dell’eros, del sesso, è un antidepressivo naturale: nel romanzo è più che presente, ma è un modo di precipitare ulteriormente nel tema della morte.

Questo precipitare nel tema della morte mostra l’eros come forza arresa, sconfitta, piuttosto che come dinamica trainante.

Pensando a Guido, è così. È una forza sconfitta perché lui non è più un ragazzo, è un uomo adulto; ha una sedimentazione di vissuto, anche erotico, che non gli permette l'entusiasmo adolescenziale. La sua ossessione sta maggiormente nel tentativo di ricordare se ha davvero già conosciuto le sorelle prima del loro incontro, o se si tratta di una paramnesia. Mi rendo conto che la storia ha a che fare con un filone narrativo quasi magico - non a caso cito Raymond Queneau e Perec. Però esiste una dimensione magica che prescinde dall’unità di tempo realistica, della narrativa diciamo hemingwayana o moraviana, nella quale io non mi riconosco assolutamente.

A proposito del clima magico, La peste nuova possiede i contorni della favola. Una favola sul talento e sull’alterità, come lei rivela già nelle prime righe. Ma per Battaglia l’alterità conta più del talento?

Per Guido Battaglia sì. Non ha talento. Eppure dispone della consapevolezza della sconfitta, che è un tratto distintivo. L’alterità ritengo sia un valore e Guido Battaglia senza retorica afferma la propria alterità, anche all’interno della sconfitta. Sia la sconfitta riferita alla peste sia la sconfitta riferita ai suoi colleghi scrittori, che hanno più successo perché segnati da una subcultura glamour.

Sconfitto ne esce anche il sistema capitalistico: «L’assalto al cielo sta invece riuscendo, ci pensate, a un semplice batterio: mostrando a tutti l’irresponsabile amoralità proprio di quel sistema di produzione della ricchezza e delle diseguaglianze...». Sarà il virus, alla fine, a restaurare il comunismo?

Questo potrebbe proprio fare riferimento alla situazione attuale. La globalizzazione e il sistema di produzione alla fine vengono sconfitti da un virus. Nel senso che nessuna tessera del mosaico del meccanismo di produzione e scambio neocapitalistico, o postcapitalistico, è al suo posto da quando è arrivata la peste nuova. Ed è una considerazione che va fatta, nessuno c’è riuscito, da Campanella a Rosa Luxemburg, e ci riesce il virus. Tutto ciò, però, non è l’affermazione del comunismo, ma è la messa in mora di quello che è ritenuto il migliore dei mondi possibili. A fronte dell’arrivo della peste, il migliore dei mondi possibili, ovvero il capitalismo, mostra i piedi d’argilla, mostra di essere “una tigre di carta”, come diceva qualcuno…

Un’ultima domanda. Ma se davvero ormai le uniche persone che contano qualcosa per la nostra società sono medici e infermieri, i soli che rivestono un ruolo, perché allora continuare a scrivere?

Rispondo con un aneddoto. Ad un convegno di tanti anni fa, uno scrittore ha provato a spiegare cos’era l’arte. Diceva così: “Immaginiamoci l'aborigeno e l’omino di Magritte, quello con la bombetta vestito come un personaggio della City. Secondo voi, tra l’omino di Magritte e l’aborigeno chi riesce ad attraversare il deserto?” E un critico coglione postmodern rispose: “L’aborigeno!”. E lo scrittore disse: “No! L’arte è proprio il miracolo dell’omino di Magritte, che è totalmente privo delle qualità del dromedario umano, ma riesce ad attraversare il deserto. L’aborigeno lo fa per mestiere, te lo aspetti, è nato per farlo”. È ancora una volta affermare la propria alterità.