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18/05/2022 06:00:00

Giovanni Falcone: le stragi, la trattativa, i nemici e i veleni

 Siamo a sei giorni dal 30° anniversario della Strage di Capaci, nella quale hanno perso la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonino Montinaro. Con l’avvicinarsi dell’anniversario in queste settimane e nei prossimi giorni, ci sarà un continuo flusso di notizie, eventi, e cerimonie che ricorderanno la Strage, la figura di Falcone, il suo sacrificio e quello di chi è caduto con lui.

Si parlerà di mafia e di antimafia e, purtroppo, sarà alto il rischio che si possa cadere nella retorica e, proprio per questo il consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha risposto alle domande di “Oggi” e “Repubblica” dice che: "Il modo migliore con cui le istituzioni possono ricordare Falcone e i nostri morti è quello di creare le condizioni perché i magistrati proseguano in modo efficace la ricerca della verità sulle entità esterne alla mafia che verosimilmente parteciparono all'ideazione, organizzazione ed esecuzione dell'attentato. La sola retorica e il ricordo tradirebbero l'eredità di Falcone".

Il magistrato che ha risposto alle domande di Andrea Purgatori afferma: "L'emozione è importantissima e necessaria, ma se accompagnata da un'analisi aderente a ciò che è emerso fino adesso. Perché il rischio è che prevalga la considerazione, rassicurante per tutti, che Capaci sia stata solo la vendetta contro il giudice che Cosa nostra identificava come il nemico numero uno".

Di Matteo ricostruisce “Capaci” con i processi che si sono svolti - “Quello di Capaci è l'unico attentato contro un convoglio di auto blindate in movimento - afferma il magistrato -. Sarebbe stato facile eliminare Falcone con la classica modalità mafiosa a Roma, dove già si trovava Matteo Messina Denaro con il suo gruppo di fuoco. Invece l'operazione viene trasformata improvvisamente da un contrordine di Riina, che li fa tornare a Palermo, in un attentato militare molto più difficile ma spettacolare per terrorizzare il Paese. Ecco, anche solo per queste tre considerazioni la possibile presenza di entità esterne non è una ipotesi fondata su un ragionamento teorico. E dovremmo cercare di ricostruirla dall'inizio, partendo proprio da questo improvviso cambio di programma".

Cosa nostra rinegozia i rapporti politici e istituzionali nel periodo delle Stragi – Per Di Matteo – che risponde al sociologo Luigi Manconi - Capaci fu la prima di otto stragi, da via d'Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino fino al fallito attentato allo stadio Olimpico dove dovevano morire cento carabinieri. "E' un momento in cui Cosa nostra scende in campo per rinegoziare i propri rapporti politici e con i poteri istituzionali, per cambiare i suoi referenti tradizionali che in parte avevano fallito e in parte avevano tradito. Fare la guerra per poi potere fare la pace, questo diceva Totò Riina. La strategia stragista doveva fare paura non solo ai governi ma alla gente".

Dialogo tra istituzioni e Riina è incontrovertivile – “La sentenza definitiva per la strage di via dei Georgofili a Firenze indica come tra Capaci e via d'Amelio una parte delle istituzioni si rivolgesse a Vito Ciancimino per far chiedere a Riina cosa volesse per cessare le stragi. L’esistenza del dialogo a distanza con Riina è incontrovertibile".

Le assoluzioni dei funzionari dello Stato non negano le anomalie della loro condotta - D’altra parte, neppure la sentenza di appello ha messo in discussione molti dei fatti accertati dalla Procura, nonostante l’assoluzione di Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno. Voglio dire che, ad esempio, la mancata condanna di alcuni imputati non significa che gli alti gradi del Ros dei carabinieri non siano stati autori di condotte anomale - anche in relazione alla lunga latitanza di Bernardo Provenzano - bensì che quelle condotte non costituirebbero reato. Vale lo stesso per altri passaggi importanti della lunga storia di quegli anni. Dalla mancata perquisizione del covo di Riina, ai colloqui informali con Vito Ciancimino".


Di Matteo su Matteo Messina Denaro si dice colpito dal fatto che si vuole ridimensionare ruolo e peso all’interno di Cosa nostra - "La rappresentazione che si è fatta di questo signore di cui ormai è emerso il ruolo strategico e centrale nelle stragi di Capaci e via d'Amelio e nell'esportazione della strategia stragista nel continente. E' l'uomo di maggior spicco di Cosa nostra e il mandante dell'attentato nei miei confronti, secondo i collaboratori di giustizia. Ma negli ultimi anni, a fronte della sua inaccettabile latitanza, sembra si voglia ridimensionarne il peso. Alcuni dicono che dopo le stragi non avrebbe avuto più un ruolo apicale in Cosa nostra, o che non è lui il capo dell'organizzazione ma un battitore libero. Altri affermano che avrebbe perso la capacità di influenza sulle famiglie mafiose palermitane e a me questo svalutarne la figura sembra un modo per tranquillizzare, visto che lo Stato non lo riesce a prendere. E non è plausibile, perché è in possesso di un'arma micidiale: la conoscenza dei rapporti che Cosa nostra ha avuto nel periodo delle stragi. Quest'arma vale più di quintali di tritolo perché è l'arma del ricatto. Uno Stato che alcune volte si autocelebra nel dire che la mafia è stata sconfitta, dovrebbe avere pudore ad affermarlo con nettezza quando uno dei suoi principali protagonisti è ancora libero. E libero di ricattare".

I nemici di Giovanni Falcone non erano solo boss o uomini di Cosa Nostra - A parlare di ciò sono la sorella del magistrato, Maria Falcone e e Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo. “Giovanni era anche il bersaglio di altri magistrati. Colleghi che vedevano questo giovane giudice emergente come un pericolo per la carriera di chi vedeva nella magistratura soltanto una poltrona assicurata”, così Maria Falcone, in un’intervista contenuta nella seconda puntata di Mattanza, il podcast sulle stragi del ’92 prodotto da "Il Fatto Quotidiano". I primi soggetti, oltre alla mafia, ad attaccare Falcone si appalesano dopo il Maxiprocesso, come ha ricostruito l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato “Bisogna distinguere due fasi del Maxiprocesso secondo me: la prima è quando il pool arresta gli esponenti della mafia militare, che riscuote un successo e un applauso generalizzato. Poi inizia una seconda fase, quando il pool alza il tiro su colletti bianchi. Da quel momento in poi cambia completamente l’atteggiamento dell’establishment. Inizia una campagna di stampa, mediatica, che comincia ad attaccare il pool e Falcone”. Il Sistema minacciato dalle indagini di Falcone reagisce: ostacoli e bocciature sono frequenti. a guerra contro Giovanni Falcone non fu fatta soltanto da personaggi come Riina. Ma fu fatta da menti raffinatissime che stavano dentro i palazzi del potere, dentro in un sistema di potere che si sentiva minacciato dalle indagini che Giovanni Falcone aveva fatto in tutti i campi".