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03/07/2025 14:00:00

Strage di Ustica. L'appello dei fratelli Bosco: “Vogliamo la verità”

A quarantacinque anni dall’enigma che inghiottì il DC9 I-TIGI nei cieli del Tirreno, la ferita di Ustica continua a bruciare nelle coscienze di chi ha perso tutto in una sera d’estate. Enzo e Claudio Bosco, figli di Alberto Bosco—una delle 81 vittime—non hanno mai smesso di bussare alle porte dello Stato. Claudio aveva sette anni, Enzo appena diciotto mesi, quando il 27 giugno 1980 il padre svanì insieme all’aereo partito da Bologna e atteso a Palermo. Cresciuti a Valderice in una famiglia che ha sempre creduto nelle istituzioni, hanno sperimentato lo scarto doloroso tra fiducia e silenzio:

 

«Siamo i fratelli Bosco … e chiediamo di trovare i colpevoli e di dare finalmente verità e giustizia a tutti noi familiari e cittadini compresi. Una strage impunita: il diritto alla verità è sacrosanto. 

Chiediamo verità, verità, verità. Tantissime testimonianze emerse in questi ultimi due anni speriamo ci portino dritti alla verità. Grazie».

 

 

 

Il contesto che rafforza la richiesta

La loro voce riecheggia mentre la stampa nazionale ripropone i risultati dell’ultima indagine di L’Espresso. Due servizi firmati da Paolo Biondani—il primo pubblicato il 17 aprile 2025, il secondo il 26 giugno 2025—hanno riaperto il fascicolo mediatico su Ustica con fatti e nomi capaci di dissolvere, pezzo dopo pezzo, la teoria dell’esplosivo a bordo.

Nel reportage di aprile, Biondani ricostruisce la genesi della cosiddetta “pista bomba”: una telefonata anonima giunta alla redazione del Corriere della Sera alle prime luci del 28 giugno 1980. L’interlocutore, che si presentava come portavoce dei NAR, attribuiva l’attentato a un ordigno trasportato dal neofascista Marco Affatigato. Peccato che Affatigato fosse vivo e che la storia—nata, secondo il settimanale, nel ventre della loggia massonica P2—servisse solo a depistare le indagini. Da quella bugia originaria, spiega l’inchiesta, si diramano decenni di “contaminazioni” di reperti, schegge senza catena di custodia e fantasiose ipotesi di lavandini sventrati nella toilette del velivolo: nulla che regga alla prova di laboratorio.

Il secondo servizio, diffuso il 26 giugno, entra nel merito dell’istruttoria chiusa dalla Procura di Roma a gennaio 2024: 435 pagine che certificano il coinvolgimento di caccia statunitensi e francesi in una battaglia aerea in tempo di pace. Testimonianze di piloti, controllori di volo e marinai della portaerei USS Saratoga descrivono decolli “in emergenza”, tracce radar occultate e persino un serbatoio esterno di jet americano ritrovato tra i rottami—poi misteriosamente scomparso dai depositi giudiziari. Il DC-9, secondo i periti più accreditati, sarebbe stato investito non da un missile, ma da una collisione o “quasi collisione” con uno dei caccia che inseguivano un Mig libico nascosto sotto la fusoliera dell’aereo civile.

Le ricadute sul diritto alla verità

La narrazione dell’“ordigno fantasma”—quella “bomba che implode invece di esplodere”, per usare l’ironia dell’ingegnere metallurgista Donato Firrao—è dunque relegata al rango di favola nera. Gli ingegneri Ramon Cipressi e Marco De Montis mostrano deformazioni compatibili con un impatto meccanico: la porta della toilette è piegata verso l’interno, non verso l’esterno; l’ala sinistra del DC-9 è tranciata a metà da un corpo contundente, non da un’onda d’urto. In assenza di evidenza di bruciature o residui di esplosivi nella cabina, la pista terroristica cede il passo a uno scenario militare che chiama in causa catene di comando dell’Alleanza Atlantica e l’Italia stessa, responsabile di avere consentito—andato a benefìcio di chi?—un campo di battaglia nei cieli civili. lespresso.itlespresso.it

Perché l’appello dei fratelli Bosco non è retorica

La legittimità dell’appello “verità-giustizia” si innesta su tre elementi oggi incontrovertibili:

  • Sentenze civili consolidate (dal 2011) attribuiscono la strage a “un’azione di guerra in tempo di pace”.
  • Nuove testimonianze militari e radaristiche confermano manovre NATO nell’area di Ustica tra il 24 e il 27 giugno 1980.
  • Perizie metallurgiche e aeronautiche escludono definitivamente l’esplosivo interno e puntano su una collisione tra velivoli.
  • Né lo Stato italiano né i governi alleati hanno tuttavia rivelato documenti chiave: i tracciati completi degli E-3 Awacs, i diari di bordo della Saratoga, le comunicazioni tra l’aeronautica francese e il quartier generale NATO di Napoli. L’appello dei fratelli Bosco non è dunque la rituale invocazione di un dolore familiare, ma un atto civile supportato da indizi concreti che sollecitano un’ultima, decisiva trasparenza istituzionale.

    Una memoria che spinge all’azione

    Chi passa oggi davanti al relitto ricomposto nel Museo di Bologna vede il profilo scheletrico di un aereo che ha smesso di essere un “mistero della Repubblica”: il mistero semmai è perché la verità sia rimasta sepolta così a lungo. La parola “strage impunita” che i Bosco pronunciano in pubblico è la stessa che risuona nelle carte processuali: non basta aver pagato risarcimenti, occorre individuare responsabilità penali e politiche, comprese quelle dei depistatori di ieri.

    Se c’è una lezione nella vicenda, è che i familiari hanno vinto sul tempo. Non un tribunale penale, non un governo, ma la tenacia di chi non si arrende di fronte al silenzio. Nessuna commemorazione potrà dirsi completa finché un pilota—o un comando operativo—potrà ancora nascondersi dietro l’omertà militare. Fino ad allora, l’eco del triplice “verità” dei fratelli Bosco continuerà a scuotere l’aria, esattamente come fece, tragicamente, l’urlo del DC-9 di Ustica nel cielo del 1980.



    Cronaca | 2025-12-12 10:08:00
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