«Se mi ribello, mi manda via. E io poi come do da mangiare ai miei figli?».
Frasi come questa, registrate nelle intercettazioni ambientali e telefoniche, raccontano meglio di ogni documento l’abisso di sfruttamento e paura in cui lavoravano decine di donne e ragazze impiegate nei negozi dell’imprenditore Giovanni Caronna, 49 anni, finito agli arresti domiciliari con l’accusa di caporalato.
L’inchiesta, coordinata dalla Procura di Palermo, si è mossa a partire da un esposto anonimo arrivato alla Guardia di Finanza nel dicembre 2023. Una lettera piena di dettagli su ciò che accadeva nei punti vendita riconducibili a Caronna: orari di lavoro massacranti, paghe da fame, controlli costanti, nessuna tutela e minacce più o meno velate a chi osava lamentarsi.
Le lavoratrici e il ricatto del pane
«Mi dà il pane, come potrei tradirlo?» dice una commessa intercettata mentre si sfoga con un’amica. Un’altra racconta: «Mi ha detto che se vado via mi denuncia. Ho paura…». C’è chi lavora dieci ore al giorno con un contratto part-time da 450 euro al mese. E chi, a causa delle videocamere installate in ogni angolo del negozio, sa che ogni gesto verrà giudicato e inciderà sullo stipendio.
I militari del Gruppo di Palermo, guidati dal colonnello Danilo Persano, hanno ricostruito un sistema ramificato di sfruttamento. Hanno incrociato le dichiarazioni delle vittime con le banche dati dell’Inps, le immagini delle telecamere e le chat interne tra i dipendenti, in cui alcune lavoratrici cercavano di darsi forza. «Ci andiamo insieme in tribunale», scrive una di loro. «Basta stare zitte. È ingiusto».
Undici negozi e tre società. Ma un solo metodo
L’imprenditore, residente a Partinico, gestiva un piccolo impero commerciale diffuso in tutta la provincia di Palermo e Trapani: da Carini ad Alcamo, da Castellammare del Golfo a Partinico, passando per i centri commerciali come il Poseidon di Carini. Le società coinvolte (una formalmente intestata a lui e altre tre di fatto riconducibili alla sua persona) controllavano undici punti vendita che esponevano marchi di grande richiamo: Expert, Alcott, Terranova, Jennifer, Phone Planet (tutti totalmente estranei all’inchiesta).
Secondo le indagini, i dipendenti firmavano contratti part-time da 18 ore settimanali, ma erano costretti a lavorarne anche 60, con una paga che in alcuni casi non superava i 450 euro mensili. Le ferie venivano negate. I cedolini non consegnati. E le pause controllate col cronometro. Chi si lamentava, rischiava il posto. O peggio.
La “meritocrazia” dei soprusi
Caronna aveva anche inventato un sistema premiante tutto suo. Se un dipendente veniva ritenuto “produttivo”, il salario mensile poteva lievitare fino a 550 euro. Altrimenti, si restava fermi a 300 o poco più. Ogni gesto veniva valutato. Ogni assenza, sanzionata. «Un controllo asfissiante – scrive il Gip Patrizia Ferro nell’ordinanza – che faceva leva sul timore della perdita dell’unica fonte di reddito».
Nel sistema rientrava anche la gestione “familiare” delle assunzioni, con parenti e amici in ruoli di controllo. Alcune commesse venivano umiliate pubblicamente. Altre lavoravano in solitudine nei negozi per turni infiniti. L’inchiesta ha documentato almeno diciotto episodi di particolare gravità.
Il sequestro e le accuse
Il giudice ha disposto, oltre alla misura cautelare, anche il sequestro di 100mila euro, ritenuto il profitto ottenuto attraverso lo sfruttamento dei lavoratori. Insieme a Caronna, è stato indagato anche Giuseppe Maurizio Genna, amministratore della società Mg Moving, che secondo gli inquirenti avrebbe avuto un ruolo nell’organizzazione.
Le accuse sono gravissime: intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Un reato di “caporalato” che, in Sicilia, si fa spesso con giacca e cravatta e dentro vetrine luccicanti.
La Cgil: «Paura e ricatti, ma ora basta»
Secondo la Cgil, molte delle lavoratrici coinvolte non avevano mai denunciato per paura. «Riceviamo ogni giorno segnalazioni simili – dichiarano i sindacalisti Aiello e Gatto –. Chi prova a ribellarsi viene minacciato o mandato via. Ma quando il rapporto è già incrinato, non si ha più niente da perdere. Ed è lì che si può davvero cambiare le cose».
L’inchiesta ha colpito duramente l’opinione pubblica. Non solo per la mole dei negozi coinvolti, ma per la freddezza del sistema messo in piedi. Come spiega uno degli investigatori: «Avevamo già visto lo sfruttamento nei campi. Ma qui, dietro i manichini e i saldi, c’erano le stesse identiche dinamiche. Solo più ben vestite».