Esce oggi, 25 luglio 2025, Sotto tiro, il primo libro dell’avvocato Valerio Vartolo, pubblicato da Zolfo Editore, che affronta con coraggio e lucidità uno dei temi più scottanti del nostro tempo: lo stato della libertà di stampa in Italia.
Sotto tiro è un libro di straordinaria attualità. Non è un saggio giuridico, né un testo tecnico per soli addetti ai lavori. È un viaggio nelle contraddizioni del sistema giudiziario e informativo italiano, dove la libertà di stampa ogni giorno sopravvive – e talvolta soccombe – sotto i colpi di querele temerarie, minacce, automatismi giudiziari e rapporti ambigui tra poteri forti e stampa.
Vartolo, avvocato penalista da anni impegnato nella difesa dei giornalisti e delle fonti, accompagna il lettore nelle aule dei tribunali d’Italia, dove il diritto di cronaca si trasforma spesso in un campo minato. E lo fa con uno stile sferzante, talvolta ironico, che smaschera la retorica dell’“informazione come cane da guardia della democrazia” quando viene strumentalizzata da chi ne ha fatto una comoda corazza.
Il libro denuncia un sistema in cui anche alcuni giornalisti, avvocati e giudici finiscono per contribuire – consapevolmente o meno – all’indebolimento dell’informazione libera.
E racconta di potenti, o sedicenti tali, che mal sopportano le voci critiche, trasformando la libertà di stampa in un bersaglio.
La prefazione di Gery Palazzotto, che pubblichiamo integralmente, introduce con chiarezza e profondità il senso del libro: un invito a non abbassare la guardia, a non lasciare soli i cronisti e a riportare il tema della libertà di informare al centro del dibattito pubblico.
In un Paese in cui – come ricorda il Global Gender Gap Report 2025 – si arretra anche sul piano della partecipazione e dei diritti fondamentali, Sotto tiro è una lettura urgente. Non solo per chi fa giornalismo, ma per chi crede ancora nella forza della democrazia.
C’è un’immagine che mi viene in mente quando si parla di rapporto tra stampa e giustizia, tra giornalismo e potere, ed è quella del coccodrillo. Penserete d’istinto alle lacrime quindi a un finto pentimento o a un moto ipocrita di dispiacere. Niente di tutto questo. Penso al coccodrillo o meglio a chi lo nutre con la speranza di farselo amico e invece non sa che l’unico vantaggio che ne ricaverà sarà quello di essere mangiato per ultimo. Perché è in questo rapporto grottesco per nulla perverso – la perversione contiene una quota di umanissimo piacere che qui non sussiste – che negli anni siamo invecchiati (noi) giornalisti, e magistrati e avvocati non confessandocelo per pigrizia, o peggio per superficialità. Ci siamo foraggiati a vicenda, facendoci coccodrillo a turno: cronisti compiacenti, magistrati magnanimi, avvocati pigri. Se la commedia degli equivoci fosse una malattia, ci saremmo estinti per epidemia. C’è un però. Quando tutti si cullano nella stessa illusione di essere migliori, furbi, esperti, potenti, salvi, l’unico succedaneo di verità da addentare è amaro e indigesto: è il sistema che non funziona. E non ce lo dice la legge degli uomini. Ma quella della giungla, che non mente e non perdona. Lo so, potrebbe essere una lettura a suo modo romantica – ognuno illuminato da una luce di spirito combattente – ma, specialmente negli ultimi anni, è qualcosa di più urente e meno recensibile. È spesso sciatteria, presunzione cieca, scarsezza.
Il rapporto tra verità e giudizio personale, ben indagato in queste pagine, non è una questione di coraggio o incoscienza. Ma di professionalità, da qualunque parte lo si guardi o lo si viva. Nei giornali, tra i vari direttori di cui ogni tanto si racconta, ce n’era uno che aveva miglior confidenza col sentire dominante, ergo col potere, che col diritto di cronaca. Per lungo tempo i cronisti che portavano scoop – erano gli anni delle stragi e dei «pentimenti» dei boss, anni complicati e pericolosi per tutti – venivano torchiati quasi come se avessero commesso un crimine. Quel direttore impose una regola non scritta, vera tomba del giornalismo, per cui in tema di mafia (e purtroppo non solo) era bene che prima uscisse un’agenzia di stampa con la notizia che la redazione aveva in esclusiva, in modo da diluire la responsabilità. Capite bene il corto-circuito. Insomma sarebbe stato un pessimo cliente per avvocati come Valerio Vartolo che qui narra di azzardi e di sbordamenti, di passione per i fatti e di obblighi di verifica.
In questo libro ci sono passaggi cruciali per momenti cruciali. Niente è qualunque se c’è passione di costruire, che sia notizia, inchiesta, teoria, persino crociata. Viviamo in un secolo in cui la tutela delle fonti, il più antico e il meno ricordato tra i pilastri di una democrazia da narrare, viene calpestata ignorando che – scusate la summa grossolana, ma non sono un tecnico del diritto come l’autore – non importa chi ti ha dato quella determinata notizia, ma se è vera o se è una scemenza. In una sorta di composto e istruttivo manuale di sopravvivenza Vartolo ci guida nel dedalo dei compromessi e delle mediazioni, strumenti che ci dicono molto della buona fede di chi si scaglia contro una campagna giornalistica. E – non voglio spoilerare – l’autore tocca capitoli personali e curiosi come quello delle parcelle che innescano in me ricordi antichi. Quando, giovanissimo, mi chiedevano che mestiere facevo, io rispondevo: il giornalista. E subito partiva l’obiezione: sì, ma esattamente cosa fai per vivere? Vorrei dire di più su questo libro perché è un catalizzatore di pensieri, una foto interattiva di una realtà che scorre sulle timeline e che ogni volta si ricarica con un refresh regalando una prospettiva diversa e mai sovrapponibile alla realtà stessa di cui è surrogato fallace.
C’è in questo Sotto tiro un capitolo dedicato alla «continenza espressiva» che ci spiega chi siamo, cosa siamo diventati, cosa credevamo di essere e chi non saremo mai quando decidiamo di usare la penna come una spada e magari ci lasciamo prendere dalla tentazione di trafiggere un corpo morto. È il grimaldello che apre tutte le porte della mistificazione dei social, dei confini della libertà di espressione, del passo indietro che ci pare codardia e invece è il succo di quella giustizia che, noi giornalisti, ogni tanto crediamo di spremere dalle pietre di un dubbio raramente frequentato. Leggetelo con calma e fatelo leggere ai ragazzi, questo libro. Sembrerebbe una storia di carta e di tribunali e invece è una storia crudele. Come quella di un coccodrillo che si ciba dalle vostre mani e che per premio non vi mangerà. Almeno non subito.
Gery Palazzotto