La nuova strage al largo della Sicilia e le polemiche sugli aiuti
L’ultima tragedia del Mediterraneo centrale si è consumata a poche miglia da Lampedusa, ma affonda le sue radici in anni di scelte politiche, accordi bilaterali contestati e strategie di gestione dei flussi migratori basate più sulla repressione che sulla prevenzione. Due barconi partiti dalla Libia, con a bordo tra le 92 e le 97 persone, hanno affrontato una traversata in condizioni proibitive. Secondo le prime ricostruzioni, il primo scafo ha iniziato a imbarcare acqua e a ribaltarsi, costringendo i passeggeri a trasferirsi sul secondo, già sovraccarico. Poco dopo anche quest’ultimo si è capovolto, trascinando in mare decine di uomini, donne e bambini. Il bilancio è provvisorio ma tragico: almeno 27 morti accertati, tra cui una neonata, una decina di dispersi e circa 60 sopravvissuti. I superstiti sono stati condotti all’hotspot di Lampedusa, già vicino alla saturazione, mentre le ricerche proseguono con mezzi navali e aerei. Sullo sfondo, però, resta il dato più inquietante: dall’inizio del 2025 sono oltre 900 i morti o dispersi lungo la rotta centrale del Mediterraneo, una cifra che, sebbene leggermente inferiore a quella dello stesso periodo del 2024 (1.480), conferma la costante mortalità di questa via migratoria, considerata dall’ONU una delle più letali al mondo.
La Linea del Governo: responsabilità ai trafficanti
La reazione dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni è stata immediata e perfettamente in linea con la narrativa consolidata: la colpa ricade interamente sui trafficanti di esseri umani. La presidente del Consiglio ha parlato di “inumano cinismo” delle organizzazioni criminali che organizzano i viaggi, ribadendo l’impegno a “prevenire le partenze irregolari” come priorità assoluta. Sulla stessa lunghezza d’onda, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il vicepremier Matteo Salvini hanno sottolineato che nessuna modifica alle attuali politiche è prevista, anzi rafforzando l’idea che “l’unico modo per fermare le stragi è fermare le partenze”. Questa posizione, già adottata in occasione di precedenti tragedie come quella di Cutro nel 2023, ignora le accuse di mancata attivazione tempestiva dei soccorsi, preferendo insistere sulla lotta ai “pull factors”, ovvero i presunti incentivi creati dalla presenza di operazioni di ricerca e salvataggio. La comunicazione governativa si concentra quindi su un racconto che mira a isolare la responsabilità sui trafficanti, evitando di affrontare le critiche sul coordinamento delle operazioni SAR (Search and Rescue) e sul ruolo limitato della Guardia Costiera.
Le denunce di ONG e opposizioni: "morti annunciate"
Per le organizzazioni umanitarie e per gran parte delle forze di opposizione, questa non è una tragedia imprevedibile, ma il risultato diretto di scelte politiche precise. Il Comitato Tre Ottobre ha definito le vittime di Lampedusa “morti annunciate”, puntando il dito contro l’assenza di canali di ingresso legali, la progressiva riduzione delle missioni di ricerca e soccorso statali e l’inefficacia degli accordi con Paesi terzi, come Libia e Tunisia, volti a bloccare le partenze in cambio di finanziamenti e supporto tecnico. Riccardo Magi (Più Europa) parla apertamente di “fallimento totale” delle politiche migratorie del governo, citando sia il Piano Mattei sia l’esperimento dei CPR in Albania come “operazioni di pura propaganda senza effetti concreti”. Chiara Braga (PD) aggiunge che “non si governa un fenomeno epocale con slogan e sloganismi”, mentre Matteo Renzi (Italia Viva) attacca frontalmente Meloni ricordando l’episodio del trafficante Almasri, arrestato in Italia e poi rimandato rapidamente in Libia su decisione del governo. Secondo le ONG, il quadro è ancora più grave se si considera la sistematica criminalizzazione delle navi umanitarie e persino degli aerei di monitoraggio civile, strumenti fondamentali per individuare le imbarcazioni in difficoltà prima che sia troppo tardi.
Le accuse di omissione di soccorso e le regole contestare
Un’inchiesta giornalistica dell’Unità ha portato alla luce un aspetto inquietante: i soccorsi sarebbero stati attivati solo dopo che un elicottero della Guardia di Finanza, alle 11 del mattino, ha segnalato la presenza di corpi e relitti in mare. Prima di quel momento, le imbarcazioni avevano già attraversato la zona SAR italiana senza essere intercettate o assistite. Secondo fonti interne, questa dinamica non sarebbe un’eccezione ma la conseguenza diretta di direttive interministeriali adottate negli ultimi anni, che privilegiano le operazioni di polizia contro l’immigrazione irregolare rispetto all’attivazione immediata dei soccorsi. In pratica, fino a quando non viene dichiarata un’emergenza conclamata, la Guardia Costiera deve restare in secondo piano, lasciando priorità operativa alla Guardia di Finanza nelle cosiddette “acque contigue”. Questo approccio, contestato da giuristi e associazioni, contrasta con gli obblighi internazionali previsti dalla Convenzione SAR e dalla Convenzione di Amburgo, che impongono di intervenire tempestivamente per salvare vite umane. La scelta di fermare o limitare la presenza delle ONG e persino degli aerei di monitoraggio — come il Seabird1 di Sea-Watch, bloccato a terra pochi giorni prima della tragedia — ha ulteriormente ridotto la capacità di rilevamento precoce dei naufragi.
Il legame con la tragedia di Cutro e il nodo politico
Il parallelismo con il naufragio di Cutro del 2023 è inevitabile. Anche allora, decine di persone morirono a poche centinaia di metri dalla costa calabrese dopo ore in cui le autorità italiane erano state avvisate della presenza di un’imbarcazione in difficoltà. In quell’occasione, il governo parlò di “condizioni meteorologiche avverse” e di “assenza di segnali di pericolo”, mentre successive inchieste giornalistiche e giudiziarie sollevarono dubbi su ritardi e scelte operative. Oggi, a due anni di distanza, il copione sembra ripetersi: retorica sui trafficanti, rivendicazione della fermezza, nessuna ammissione di errori e un apparato normativo che di fatto limita l’azione immediata di soccorso. Il risultato è un sistema che rischia di trasformare il Mediterraneo centrale in un “corridoio di morte” in cui la priorità non è salvare vite, ma impedire arrivi irregolari sul territorio nazionale.
Una crisi umanitaria strutturale e ignorata
Al di là delle polemiche politiche, la tragedia di Lampedusa evidenzia una verità amara: la gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale è in crisi strutturale. Secondo l’UNHCR, l’assenza di vie legali di accesso in Europa, unita alla chiusura progressiva degli spazi di azione per le ONG, costringe migliaia di persone a tentare la traversata su imbarcazioni precarie, spesso senza scorte di acqua o carburante sufficienti. Le cause delle migrazioni — guerre, persecuzioni, crisi climatiche ed economiche — restano irrisolte, mentre i governi europei si concentrano su politiche di contenimento che spostano il problema senza eliminarlo. L’Italia, in particolare, si trova in prima linea per posizione geografica, ma la scelta di esternalizzare i controlli a Libia e Tunisia, Paesi in cui le violazioni dei diritti umani dei migranti sono ampiamente documentate, solleva pesanti interrogativi etici e giuridici. L’ennesima strage, per molti, è la prova che la strategia attuale non solo non funziona, ma produce un costo umano inaccettabile.
Save The Children
"È intollerabile questa conta senza fine di bambini e giovani vite spezzate nel tentativo di raggiungere l'Europa. Non possiamo più girarci dall'altra parte: è inumano. Oggi, nell'ennesimo naufragio al largo del Mediterraneo, una madre ha perso la figlia di circa un anno e si prospettano decine di dispersi, tra cui anche minori.
Mentre si attende, con angoscia, il bilancio definitivo dell'ultima tragedia in mare, Save the Children rinnova l’appello per l’attivazione di un sistema coordinato e strutturato di ricerca e soccorso in mare per salvare vite umane, agendo nel rispetto dei principi internazionali e dando prova di quella solidarietà che è valore fondante dell’Unione Europea, e per l’apertura di canali regolari e sicuri per raggiungere l’Europa.
Save the Children - l’Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro - in queste ore è presente a Lampedusa con un team di esperti che ha fornito immediata assistenza. Gli operatori di Save the Children, in collaborazione con ente gestore del centro, organizzazioni e agenzie operative sul posto, si sono attivati per la protezione e il supporto dei superstiti. Sono più di 32 mila le persone morte o disperse in mare dal 2014 nel Mediterraneo, molti minori, quasi mille solo nel 2025[1]. Molte di loro erano bambini e adolescenti". Per Save The Children, qui sotto, l'intervento di Giovanna Di Benedetto.
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