Paceco, due epoche un solo dolore: le figlie dei femminicidi del 1949 e del 2016
Ci sono storie che attraversano il tempo come una ferita mai chiusa. E a Paceco quella ferita inizia nel 1949. Un titolo di giornale, oggi ingiallito, parla di un uxoricidio, un marito che uccide la moglie. E racconta la scena: "Squarcia la gola alla moglie un commerciante di Paceco". Dentro la casa, una bambina di due anni, Antonina, trovata “a guazzare nel sangue” della madre.
Il nome della bimba resta. Quello della madre no. Cancellata prima dalla violenza, poi da una cronaca che la chiama solo “la povera vittima”.
Il pezzo dell’epoca si chiude così: «La folla muta e commossa ha accompagnato la povera vittima verso l’ultima dimora, mentre una povera bimba inconsapevole chiamerà ancora invano i suoi genitori». Una bambina sola davanti all’impossibile. Nessuno si chiese cosa ne sarebbe stato di lei.
Settant’anni dopo, quel dolore ritorna. Cambiano le parole, oggi diciamo femminicidio, ma non cambia la sostanza. Perché un’altra donna, nella stessa comunità, è stata uccisa per aver detto ciò che ogni persona dovrebbe poter pronunciare senza rischiare la vita: “basta”.
Il 20 novembre, Giornata mondiale dell’infanzia, dovrebbe parlare di diritti, di crescita, di futuro. E invece, proprio in questo giorno, nel 2016, un altro padre ha strappato alla vita una madre consegnando ai figli un dolore innaturale, che non conosce tregua. Il nome della vittima, questa volta, è dato: Anna Manuguerra. Una donna che ha dedicato tutta la vita alla famiglia, ai figli, persino al marito. Una donna che aveva atteso decenni per proteggere i propri figli, e che a un certo punto ha trovato il coraggio di dire basta a una violenza che non riusciva più a contenere.
Un “basta” che avrebbe dovuto salvarla. Un “basta” che invece le è costato la vita.
Oggi il “basta” vive nella voce della figlia, Mariagrazia. «Mia mamma, Anna Manuguerra, aveva 60 anni. Una mamma speciale. Però dopo tanti anni è arrivato il momento in cui ha detto basta. Lì è iniziato il grande inverno». Ogni volta che può, Mariagrazia porta questa storia nelle scuole,e lo fa per restituire ciò che per decenni non è stato fatto né nel 1949 né nel 2016: riconoscere la vittima, non dimenticarla, darle spazio nella memoria di chi cresce oggi.
Ma c’è altro. C’è ciò che resta ai figli delle vittime, orfani due volte, senza una madre uccisa e senza un padre che non può più esserlo. «A noi figli non ha pensato nessuno», ripete con occhi lucidi Mariagrazia. Nel 2016, come nel 1949, “in una pozza di sangue” è caduta anche la loro vita. Per i ragazzi di Anna Manuguerra quel giorno è iniziato un dolore doppio: la madre uccisa e, nello stesso istante, il padre perduto per sempre perché autore della violenza.
«Il dolore era troppo forte. Ho chiesto aiuto», parole che raccontano ciò che accade a chi sopravvive: il peso, la solitudine, la fatica di rimettere insieme i pezzi. Oggi Mariagrazia porta soltanto il cognome della madre.La sua testimonianza serve a restituire un nome alla storia e una voce a chi è rimasto. Ai ragazzi dice cose semplici e precise: «La violenza non è solo manuale. Inizia dalle parole, dal mancato rispetto. Non fatevi calpestare da nessuno». E quando parla del “basta” non lo veste di eroismo: «Non è facile. Ci sono i figli, il problema economico, la paura di andare via. Ma non bisogna restare soli»
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