La Sicilia assetata: dissalatori, sprechi e lo scontro politico sull’acqua
La Sicilia resta in emergenza idrica. Non è uno slogan né una previsione pessimistica: è la conclusione che emerge dagli atti ufficiali, dal report della Corte dei conti, dagli investimenti straordinari sui dissalatori e, soprattutto, dalla vita quotidiana di cittadini e agricoltori costretti a comprare l’acqua. Un’emergenza che dura da decenni e che oggi si consuma dentro uno scontro politico acceso, mentre il rischio di una desertificazione agricola non è più teorico.
Il piano sui dissalatori: altri 41 milioni, ma la crisi non è finita
Il commissario straordinario nazionale per l’emergenza idrica, Nicola Dell'Acqua, ha approvato il piano di lungo periodo per il potenziamento dei tre dissalatori di Gela, Porto Empedocle e Trapani, con un finanziamento di 41.758.374 euro. Gli impianti erano stati già riattivati nei mesi scorsi nella prima fase emergenziale, che aveva impegnato 79.241.626 euro, in gran parte fondi FSC.
Il nuovo step prevede il raddoppio della portata per Gela e Trapani, fino a 192 litri al secondo ciascuno. A Porto Empedocle è confermata la portata di 96 litri al secondo, integrata da un modulo aggiuntivo da 24 litri al secondo e da una vasca di accumulo da 3.500 metri cubi, per garantire continuità anche in caso di guasti.
Ma lo stesso decreto chiarisce che la crisi idrica non è superata. I dissalatori sono una risposta tampone, non risolutiva.
Schifani: “Scelte necessarie, senza illusioni”
Il presidente della Regione, Renato Schifani, rivendica la linea adottata: «Siamo consapevoli che i dissalatori non rappresentano la soluzione definitiva alla siccità, ma rinunciare a questi interventi avrebbe esposto la Sicilia a conseguenze ben peggiori. Il piano è un tassello fondamentale per rafforzare la resilienza del sistema idrico regionale. Servono risposte immediate e soluzioni strutturali per il futuro».
Una posizione che prova a tenere insieme emergenza e programmazione, mentre però reti idriche colabrodo, dighe incompiute e invasi inutilizzati continuano a essere il grande buco nero della gestione dell’acqua.
Corte dei conti e scontro politico
Proprio il report della Corte dei conti ha acceso lo scontro politico. Secondo la deputata regionale del Movimento 5 Stelle Cristina Ciminnisi, il documento smonta la narrazione dell’esecutivo: «A fronte di oltre 100 milioni di euro spesi per i dissalatori e di più di 30 milioni l’anno di costi di gestione, l’acqua prodotta copre appena il 3,17% del fabbisogno regionale, destinato a salire solo al 5,28% a regime».
Dati che, secondo Ciminnisi, portano i giudici contabili a una conclusione netta: non è stata dimostrata né l’efficienza né l’economicità della scelta, anche perché non esiste un’analisi costi-benefici comparata con alternative strutturali come la manutenzione delle reti, delle dighe, dei pozzi e degli invasi. «Altro che soluzione strutturale – attacca – i dissalatori sono stati usati come alibi politico per coprire anni di immobilismo».
La replica arriva dal capogruppo di Forza Italia all’Ars, Stefano Pellegrino, che ribalta l’accusa: «La Corte non boccia le scelte di Schifani, ma certifica il fallimento storico di un approccio miope durato decenni. I dissalatori non sono un alibi, ma uno degli strumenti di una strategia integrata che nessuno prima aveva avuto il coraggio di avviare».
“Siamo costretti a comprare l’acqua”
Intanto, fuori dai palazzi, la realtà è un’altra. Bidoni e cisterne sono diventati elementi stabili del paesaggio urbano e rurale siciliano. Famiglie e imprese agricole comprano acqua privata per un bene essenziale che il sistema pubblico non riesce a garantire.
Gli agricoltori dovrebbero ricevere l’acqua dai consorzi di bonifica. In teoria. In pratica, l’acqua si perde prima di arrivare ai campi, dispersa in reti obsolete e mai manutenute. Il paradosso è che i campi restano secchi anche quando le dighe hanno ancora riserve.
Dighe incompiute, opere mai finite
Il sistema degli invasi è il simbolo di questo fallimento. In Sicilia si contano almeno 45 dighe, molte incompiute o non collaudate. Vincoli ambientali, errori progettuali, contenziosi e conflitti politici hanno congelato opere strategiche. Emblematico il caso della diga di Blufi, mai completata tra problemi tecnici e, come raccontato dall’inchiesta di Report, anche intrecci mafiosi.
Gli stati di emergenza si susseguono, portando commissari straordinari, poteri speciali e procedure in deroga. Ma il risultato resta sempre lo stesso: pochi cantieri conclusi, nessun salto di qualità strutturale.
Agricoltura verso la desertificazione
Alle pendici dell’Etna, dove nasce l’arancia rossa, la crisi idrica è già una frattura sociale. C’è chi resiste scavando pozzi, razionando ogni goccia, investendo risorse proprie. E c’è chi ha già chiuso: campi abbandonati, aziende fallite, famiglie costrette a rinunciare a un lavoro tramandato da generazioni.
Senza acqua non c’è produzione, senza produzione non c’è lavoro. Quando l’agricoltura arretra, arretra anche il presidio umano del territorio, aumentando abbandono e dissesto.
Emergenza permanente
La conclusione è scomoda ma inevitabile: la siccità è solo un fattore aggravante. Il vero problema è la gestione dell’acqua. Decenni di ritardi, opere inutili e manutenzione inesistente hanno trasformato una crisi climatica in un disastro economico e sociale.
Senza una rete efficiente, senza una governance trasparente e senza superare la logica dell’emergenza permanente – fatta di commissari, deroghe e annunci – i dissalatori rischiano di restare un tampone costoso. E a pagare continueranno a essere i cittadini e i piccoli agricoltori, mentre la Sicilia perde pezzi della propria economia, della propria identità e della propria sovranità alimentare.
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