Per Nicola Badalucco la parola Trapani non era una voce come le altre. Ogni volta che pronunciava il suo nome, gli occhi tradivano un sentimento a metà fra la tenerezza e la rabbia.
Un amore fiero e disperato. Come tutte le passioni non corrisposte. Un luogo della memoria popolato dalla struggente delusione di ritrovare nella sua Itaca, le irrisolte questioni di sempre: la mafia, i circoli esclusivi, gli sportelli bancari infettati dalla criminalità, la politica corrotta, la cultura dell’appartenenza.
Le stesse ragioni che a 24 anni lo spinsero a Roma alla ricerca di altri spazi: la redazione del quotidiano L’Avanti (fu inviato al processo per l’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale), l’amicizia con Pietro Nenni, la scrittura per il cinema. L’urgente desiderio di rappresentare i sogni e gli incubi di una Italia minore assediata dagli spettri del malaffare. Un visionario attento e scrupoloso che ha reso immenso il particolare traducendo i sentimenti in indelebili pagine del Novecento. Il debutto che ha segnato la sua carriera ha il nome di Luchino Visconti, per il quale scrisse la sceneggiatura di “La caduta degli dei” che nel 1970 ottenne una nomination all'Oscar. Dopo la tragica saga familiare tedesca ambientata durante l'ascesa del nazismo, la collaborazione e l'intesa artistica con Visconti continuarono con Morte a Venezia (1971), di Thomas Mann. Così raccontava Badalucco il suo primo incontro col maestro. “Un giorno al telefono un voce mi fa: Sono Luchino Visconti e desidero parlare con Nicola Badalucco. E io che credevo si trattasse di uno scherzo di un collega del giornale ho buttato giù la cornetta dopo una sonora risata. Pochi minuti dopo era ancora lui: Evidentemente è caduta la linea, sono Visconti e vorrei incontrarla. Il giorno dopo ero a casa sua, a pranzo . Eravamo seduti da un capo all’altro di un tavolo lunghissimo, e non ci siamo potuti scambiare nemmeno una parola. Alla fine, lui si è avvicinato e dopo una conversazione di due ore è nato il progetto della Caduta degli Dei”. Confermando il suo interesse e l'inclinazione verso film dal respiro epico e storico, Badalucco ha firmato capolavori come “L'Agnese va a morire” e “Gli occhiali d'oro” di Montaldo, “Bronte cronaca di un massacro” di Vancini, “La tenda rossa” di Kalatozov, “Un uomo in ginocchio” di Damiani, “Libera, amore mio” di Bolognini, “Io e il duce” di Negrin, e tanti altri. Per oltre dieci anni ha insegnato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e al DAMS di Bologna. E’ stata “La Piovra” però a legarlo più di tutti a Trapani. Lo svelamento di un sistema di complicità fra la borghesia e la mafia che nessuno prima di lui aveva osato descrivere. La narrazione di una città elaborata da un esule disincantato dai coinvolgimenti emotivi di chi resta, ispirata dalla collaborazione e dall’amicizia personale fra lo sceneggiatore, il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto e il vice questore Boris Giuliano, entrambi uccisi da Cosa Nostra. La massoneria deviata, le banche dei soldi sporchi, i giudici corrotti, non erano solo il presagio di un raffinato intellettuale siciliano; c’era dietro, invece, un lavoro accurato di ricerca e di consulenze, la ricostruzione di una immagine spietatamente vera di una provincia nascosta dalla mafia per meglio gestire traffici e connivenze occulte. ”Subito dopo la prima puntata, il mio cognome è stato all’ordine del giorno del direttivo di un circolo trapanese, successivamente rivelatosi vicino alla P2. Hanno continuato a chiedersi per settimane intere chi fossero i mandanti della mia sceneggiatura. Chi mi aveva ordinato di scrivere “La Piovra”. Chi erano i miei parenti più prossimi; insomma a chi appartenevo. E attorno un silenzio surreale”. Così sottolineava Badalucco, pochi anni dopo la messa in onda dello sceneggiato, il rancore per non avere raccolto la solidarietà e lo sdegno della società civile, dei magistrati, degli avvocati, degli imprenditori. Tutti presi, piuttosto, dalla smania di prendere le distanze da quella Trapani “inventata solo per procurare un danno di immagine” al paradiso in terra. Sì, il paradiso degli sportelli bancari (negli anni 80 più di quelli svizzeri), del traffico della droga, dei colletti bianchi. E non è un caso che pochi mesi dopo la città sarà percorsa da una serie di scandali che paleseranno la profezia della Piovra: un giudice in galera per corruzione, una loggia massonica coperta (il circolo Scontrino), banchieri indagati. “Era fiction, ma c’era anche qualche possibilità di identificazione. Una spinta in più nata dal desiderio di raccontare rabbiosamente la devastazione in cui era precipitata la Trapani che ho tanto amato e che appartiene ai miei ricordi. Una denuncia rivolta ai miei concittadini per sottolineare un fenomeno, la mafia, che si ostinano ancora oggi a considerare marginale”. Nicola Badalucco nei suoi ultimi anni di vita si considerava con dolore un non trapanese. Un distacco che continuava a fargli male. “E’ una constatazione amara. Oggi ho un rapporto vivo con le pietre, con i volti. Per il resto qui sono considerato un estraneo. La sua complicità con il degrado etico e morale di questi anni mi spezza il cuore, nonostante il legame affettivo sia rimasto fortissimo. Qui ho ancora la casa dei miei genitori, una sorella che amo. Mi sento, e non per colpa mia, una specie di forestiero che torna un mese l’anno nel suo paese”. Così Nicola Badalucco raccontava nella sua ultima intervista il rapporto con la città. Un amore schiacciato dalla indifferenza. Spezzato dall’accusa dei salotti buoni di avere smosso lui le acque della Piovra. Si è portato dietro il rimorso di non essere stato considerato a pieno cittadino di Trapani. Se n’è andato quattro anni fa. Senza che nessuno gli abbia mai chiesto scusa per la colpevole dimenticanza.
Giacomo Pilati la Repubblica 13 marzo 2019