A Palermo una pistola costa 200 euro. E la città vive nella paura
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200 euro. Massimo 300. Basta questo oggi a Palermo per comprare una pistola. Solo 200 euro. E’ il prezzo della paura, il costo di una vita. Basta poco per armarsi, per decidere chi deve vivere e chi no. L’ha sfoderata come se nulla fosse, sabato notte, Gaetano Maranzano. Poi ha fatto fuoco, un colpo alla fronte a Paolo Taormina, 21 anni. Un gesto rapido, spietato, che ha riaperto ferite antiche e mostrato il volto oscuro di una città dove la violenza è diventata quotidiana.
Palermo sotto shock
Da giorni Palermo vive nella paura. Nei quartieri popolari, nelle scuole, nei mercati, si parla solo di armi e di rabbia. La gente si chiude in casa, i genitori tengono i figli lontani dalle piazze, i ragazzi crescono nel sospetto reciproco. È una paura che non esplode, ma si insinua, che logora giorno dopo giorno. Una paura che nasce da un senso profondo di abbandono, dalla consapevolezza che lo Stato arriva sempre dopo, e quasi mai serve davvero. Ci sono sentimenti contrapposti. La rabbia che porta in piazza ragazzi e genitori per gridare basta alle tragedie delle movida. C’è la rassegnazione di chi sa che non sarà l’ultima volta, nonostante le promesse e i proclami che si susseguiranno da parte dei politici.

Il vertice con Piantedosi
Oggi a Roma il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi incontra il presidente della Regione Renato Schifani e il sindaco Roberto Lagalla. Sul tavolo ci sono le nuove misure di sicurezza: più agenti, zone rosse nei quartieri più difficili, controlli serrati contro la diffusione delle armi illegali. Il governo parla di “presenza più capillare delle forze dell’ordine” e di “risposta immediata dello Stato”.
Ma Palermo ha già sentito queste parole troppe volte. Ogni volta che scoppia una tragedia si annunciano piani straordinari, si promettono interventi urgenti, e poi tutto si spegne. La verità è che la città non ha bisogno di altri vertici o di nuove conferenze stampa: ha bisogno di presenza costante, lavoro, istruzione, servizi sociali veri. Perché la violenza non si spegne solo con la repressione.
Le indagini
Le indagini sull’omicidio di Paolo Taormina vanno avanti. Gli inquirenti cercano eventuali complici e stanno ricostruendo la dinamica. La sorella della vittima ha raccontato che il killer avrebbe puntato l’arma anche contro di lei, un dettaglio che mostra la brutalità e la follia del gesto. Si indaga anche sulla provenienza della pistola, probabilmente acquistata illegalmente: un’arma come tante, che a Palermo si può ottenere con pochi soldi e qualche conoscenza.
«Voglio incontrare Gaetano Maranzano per chiedergli perché ha sparato e ucciso mio figlio». Lo ha detto Giuseppe Taormina al Giornale Radio Rai della Sicilia, al Policlinico, dove è stata eseguita l’autopsia sul corpo del figlio Paolo. In ospedale c’erano decine di amici e parenti in attesa della restituzione della salma. Un lungo corteo di giovani a bordo di scooter ha poi accompagnato il carro funebre fino al PalaOreto, dove sarà allestita la camera mortuaria.
L’autopsia ha confermato la presenza del proiettile nel cranio, fugando i dubbi iniziali: l’assenza di un foro d’uscita aveva indotto gli investigatori a ipotizzare che potesse essere stato usato un corpo contundente, ma i testimoni avevano subito parlato di uno sparo. Lo stesso Maranzano, interrogato domenica poche ore dopo il fermo, ha ammesso di aver usato la pistola.
Nella confessione di otto pagine, l’assassino racconta la tensione nata nei mesi precedenti: «Quattro mesi fa scriveva a mia moglie con profili falsi su TikTok e Instagram, poi ho saputo che era lui».
Sabato sera Maranzano si è presentato al pub di Taormina insieme ad alcuni amici. «Siccome lui era in difetto con me — dice — mi guardava male e si agitava, nel suo cervello mi voleva sfidare».
Dopo una lite esplosa davanti al locale, Maranzano ha estratto la pistola e sparato. «Mi diceva che non si doveva fare casino — ha spiegato ai pm —, ma io avevo astio con lui per la cosa di mia moglie. Mi sfidava, voleva mettermi in cattiva luce davanti alle persone».

Lo Zen e le periferie dimenticate
Nel quartiere Zen, simbolo dell’abbandono e del degrado, la violenza non sorprende più nessuno. Qui la scuola è una speranza fragile, il lavoro un miraggio. I ragazzi crescono per strada, tra muretti scrostati e cantieri fermi da anni. Le case popolari cadono a pezzi, le strade sono piene di rifiuti. E dentro quel vuoto lo Stato non c’è. O meglio, arriva tardi, e quando arriva è con lampeggianti e divise.
Nel silenzio della periferia, la criminalità minuta ha preso il posto della mafia di un tempo: non serve più un clan per imporre paura, basta un’arma in tasca. La violenza è disorganizzata, individuale, imprevedibile. È questo il volto nuovo di Palermo: ragazzi che sparano senza un perché, per orgoglio o per noia, in una città che ha smesso di credere nella legge e nel futuro.
La politica e l’allarme del M5S
Anche la politica, stavolta, si è mossa. I componenti del Movimento 5 Stelle nella Commissione Infanzia e Adolescenza — Valentina D’Orso, Carmen Di Lauro, Patty L’Abbate, Luca Pirondini ed Elena Sironi — hanno annunciato:
“Nel prossimo ufficio di presidenza della Commissione chiederemo di organizzare con urgenza una missione a Palermo. La situazione è emergenziale: emarginazione, povertà, mancanza di cultura del lavoro, violenza giovanile, impressionante facilità di reperire armi da fuoco, modelli di riferimento lontani anni luce dai valori di una società sana.
C’è tutto questo dietro l’esplosione della violenza di strada e della microcriminalità. Dobbiamo ascoltare le persone, le scuole, le realtà sociali e religiose che ogni giorno lavorano per salvare i ragazzi. Bisogna fare squadra. Serve un presidio del territorio costante, ma servono anche veri servizi sociali. Se non estirpiamo dalla mente dei giovani il senso di abbandono, la violenza e la sopraffazione come forme di sopravvivenza, non risolveremo nulla”.
Sulla stessa linea la deputata siciliana Daniela Morfino, che aggiunge:
“Abbiamo chiesto un’informativa urgente del ministro Piantedosi sull’emergenza sicurezza a Palermo. La morte di Paolo Taormina è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di crimini. Uno Stato che non presidia il territorio e lascia proliferare il degrado non è uno Stato. Il governo Meloni ha tradito le promesse sulla sicurezza dei cittadini, e su questo continueremo a chiedere risposte”.
Palermo dimenticata
Palermo oggi non ha bisogno solo di più poliziotti, ma di più Stato, e non nel senso delle divise. Servono scuole aperte, servizi, lavoro, educazione. Perché la violenza non nasce dal nulla: è figlia del degrado sociale, dell’abbandono educativo, dell’assenza di prospettive.
Ogni volta che il sangue scorre, le istituzioni promettono misure urgenti. Ogni volta si parla di emergenza, di svolta, di nuove regole. Ma la verità è che Palermo vive in emergenza da decenni, e la parola “sicurezza” qui ha perso significato.
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