Adesso Palermo è una città che fa paura. Una città dove i giovani si uccidono. Una città dove le madri urlano.
Una città dove i genitori lasciano uscire la sera, i figli, con la consapevolezza che uno sgarbo, una “taliata”, una pallottola vagante, possano mettere fine alla loro vita. Di sabato sera, con gli amici. Una città che sembra tornata agli anni Ottanta, agli omicidi della guerra di mafia che insanguinavano le strade e le pagine della cronaca locale. Ma dietro quella scia di sangue c’era la logica devastante del terrore dei Corleonesi di Riina, qui, invece, è tutto un equilibrio, davvero, sopra la follia. Quella follia che nei verbali dei Carabinieri, nel nostro codice penale, nei resoconti di chi c’era, assume la forma della più terribile delle espressioni: “futili motivi”.
L’ultimo capitolo di questa cronaca nera seriale è stato scritto, o meglio, sparato, nella notte tra sabato e domenica, nel cuore di Palermo che non dorme mai: l’Olivella, a due passi dal Teatro Massimo. Qui, dove il centro storico si veste di luci soffuse, musica a tutto volume e tavolini affollati di turisti, la movida si è trasformata in tragedia. La vittima si chiamava Paolo Taormina, ventuno anni, e aveva la colpa, in questo Far West notturno, di aver tentato di fare la cosa giusta.
Paolo era il volto gentile dietro il bancone del pub di famiglia, «’O scrusciu», il locale che animava il quartiere. Erano circa le tre di notte quando, secondo le prime ricostruzioni, è uscito per sedare una rissa violenta e improvvisa, scoppiata, appunto, per “futili motivi” tra un gruppo di ragazzi poco più che ventenni. Stava lavorando, si stava guadagnando il pane, dice un testimone. Stava solo chiedendo di smetterla. Ma in questa Palermo di violenza gratuita, l’atto di civiltà è diventato la condanna.
Qualcuno del gruppo si è staccato e lo ha colpito. Non è ancora del tutto chiaro se con una pistola o un’arma da taglio – sarà l’autopsia a dirlo – ma il colpo è stato fatale. Paolo è crollato sull’asfalto, lasciando dietro di sé solo il caos dei tavolini rovesciati, le urla, e l’odore amaro della notte che finisce.
Poche ore dopo, la messa in scena del dramma si è arricchita di un personaggio degno di un B-movie criminale: Gaetano Maranzano, ventotto anni, si è costituito ai Carabinieri in periferia. E con lui, l’omicidio da rissa per futili motivi si è trasformato, per la sua versione dei fatti, in un regolamento di conti sentimentale, un vecchio rancore per presunte avance fatte alla sua compagna.
Gli investigatori verificano. Ma c’è un dettaglio che risulta più eloquente di qualsiasi confessione. Maranzano, il reo confesso, non ha resistito al richiamo dell’auto-mitizzazione criminale 2.0. Poco prima, o forse proprio a ridosso del delitto, aveva postato su TikTok un video, diventato virale in poche ore, con in sottofondo una citazione dalla fiction su Totò Riina, “Il capo dei capi”: «Tu mi arresti e per che cosa?». E non è un dettaglio da sociologia spicciola: il ventottenne appare con una barba lunga e diverse collane dorate, tra cui un pendente a forma di revolver.
Ecco la nuova iconografia della violenza palermitana: il killer che scambia una fiction di mafia per un manuale d’istruzioni e si adorna con simboli da gangster di provincia. Non è più la grande criminalità organizzata a fare la paura più atroce, quella delle bombe e delle stragi, ma questa violenza stupida, immediata, che si alimenta sui social e si sfoga in strada.
L’omicidio di Paolo non è un episodio isolato, è il culmine di una spirale di violenza a mano armata che nell’ultimo mese non si è mai interrotta. La città ha registrato sparatorie ogni fine settimana: alla festa patronale di Sferracavallo per un conto non pagato, alla Marinella per la disputa su una macelleria, e per ben due volte allo Zen per questioni di spaccio.
A fine aprile, la strage di Monreale: Salvatore Turdo, Andrea Miceli e Massimo Pirozzo vengono uccisi dal branco salito per “fare casino” dopo una lite per le moto. Lì, i giovani armati hanno capito di poter girare per la città con i “ferri” nei borselli firmati. Sono feroci, escono di casa sempre armati, non si fanno scrupoli a sparare e non si preoccupano di finire vent’anni in carcere.
Questa escalation ha avuto chiare avvisaglie: due anni fa ci fu la sparatoria in via La Lumia con sette colpi esplosi in aria in mezzo alla gente, e l’omicidio di Lino Celesia davanti alla discoteca Noct 3. Per non parlare del delitto mai dimenticato di Aldo Naro nel 2015.
La madre di Paolo, Fabiola Galioto, urla il dolore insopportabile: «Mi hanno distrutto la vita. Come si fa a sparare in testa a un ragazzo?». Il suo grido non è nuovo. È un lamento che Palermo ha imparato a conoscere, perché l’omicidio di Paolo non è un unicum, è una ferita che riapre vecchie cicatrici.
La movida palermitana, quel motore economico e sociale che ha provato a lavare via la polvere di Cosa Nostra con la leggerezza dei cocktail e del divertimento, è stata troppe volte teatro di sangue. È una costante: la violenza improvvisa e codarda che spezza sogni e carriere. Le reazioni politiche e associative si moltiplicano, dall’appello di Carlo Calenda (Palermo è «oramai il Far west») alle richieste di intensificazione dei controlli da parte della Uil.
Ma è il grido di Patrizia Di Dio, presidente di Confcommercio Palermo, a centrare il punto della contraddizione: «Siamo attoniti perché questa morte è la conseguenza diretta di una ferocia senza controllo e di un problema di sicurezza che denunciamo da tempo. Solo pochi giorni fa, in riunione con Prefetto e Sindaco, ci è stato detto che Palermo, in base alle statistiche, è una città più sicura rispetto a tante altre. Ma di fronte a questo ennesimo episodio, e stavolta si tratta di un omicidio, quei numeri diventano insopportabili e privi di senso».
Quei numeri privi di senso sono il cuore del problema. La politica si rifugia nella retorica delle statistiche tranquillizzanti mentre la città è lasciata in balia di «bande armate che scorrazzano persino nelle vie principali e turistiche». È la solita dinamica siciliana, dove, come notavamo nelle scorse settimane, i protocolli di legalità e gli annunci sembrano servire più a coprire che a prevenire.
La verità è che questa violenza quotidiana, quella delle risse, dei coltelli e delle pallottole per una taliata, è una “secessione silenziosa” della civiltà. È l’atto di un pezzo di comunità che, per incapacità o per scelta, si è staccato dalle regole minime della convivenza. È stato ucciso un giovane che con il suo gesto di generosità ha rappresentato la parte migliore della comunità, e per questo, ha pagato il prezzo massimo.
Palermo è troppo bella per continuare a essere così difficile. E se non riesce a proteggere l’atto di coraggio di un suo figlio in pieno centro, allora il problema non è solo di sicurezza. È di credibilità. È tempo che smetta di raccontarsi. E inizi a difendersi, davvero
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